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Salute mentale

La libertà è terapeutica, oggi più che mai

La residenzialità psichiatrica dovrebbe essere solo un passaggio nel percorso verso l'autonomia. La tendenza, invece, è quella di far diventare queste strutture delle "case per la vita", con ricoveri a tempo indefinito. Contro questa deriva si muovono le sperimentazioni sul budget di salute, come quella portata avanti nelle Asst Santi Paolo e Carlo e della Franciacorta in Lombardia, che mirano a ricostruire una vita indipendente per le persone con disturbi psichiatrici

di Veronica Rossi

Quando i “matti” sono rinchiusi gli psichiatri sono liberi. Così pensava Franco Basaglia e così si può spiegare la resistenza alla deistituzionalizzazione di larga parte della medicina all’epoca della rivoluzione psichiatrica. Per una presa in carico territoriale, che segua le persone nelle proprie case, all’interno della società, ci vuole impegno e cura da parte dei servizi e delle istituzioni. E, leggendo il rapporto dell’Istituto superiore di sanità Residenzialità psichiatrica: analisi e prospettive, curato da un team di esperti guidato dallo psichiatra Fabrizio Starace, presidente della Società italiana epidemiologia psichiatrica, viene da chiedersi se in Italia ci sia ancora la volontà di mantenere questa direzione.

Secondo il documento, infatti, negli ultimi vent’anni c’è stato un incremento della lunghezza dei ricoveri all’interno delle comunità, che sono diventate in diverse occasioni “case per la vita”: la durata media del trattamento residenziale in Italia era, nel 2023, 963,5 giorni, in deciso aumento rispetto al dato del 2015, che si fermava a 756,4 giorni. Contemporaneamente, tuttavia, l’impiego dei trattamenti psicosociali – la cui efficacia nel percorso riabilitativo è stata dimostrata scientificamente – risulta insufficiente, così come la dotazione di personale, in particolare di psichiatri e psicologi clinici e in generale di operatori formati per la riabilitazione. «La comunità terapeutica non deve diventare un piccolo manicomio», dice don Virginio Colmegna, fondatore e presidente onorario della Casa della carità, fondazione che accoglie e ospita persone con diversi tipi di difficoltà, tra cui quelle legate alla salute mentale, «ma un luogo vivace, dove non è la diagnosi a definire la persona e dove devono essere praticate attività che sviluppano l’autonomia». Eppure, il rapporto mette in evidenza una realtà ben diversa per molte strutture residenziali. In molti casi c’è un susseguirsi di ricoveri, a volte anche oltre i limiti stabiliti per legge, che non porta a una reale autonomia abitativa e che ha un tasso di occupazione di pazienti ed ex pazienti più basso della media europea. Un fallimento per un sistema che in Italia ha un tasso di presenze di 58,4/100mila abitanti e costa in totale 1,5miliardi di euro. Una cifra vicina al 50% della spesa totale per la salute mentale, se sommato all’esborso per la semi-residenzialità, pari a 400mila euro. «Le criticità erano state già individuate dalla Commissione di inchiesta sul sistema sanitario nazionale del 2013 e, allo stato attuale, non sono state ancora superate», commenta lo psichiatra. «C’è ancora molta insoddisfazione sull’attuale sistema delle strutture residenziali in Italia: in particolare sul loro orientamento alla recovery personale e sociale». In sostanza, le comunità – se vogliamo rimanere nell’ottica che ha ispirato la Legge 180, norma che ha chiuso i manicomi e che rimane, a distanza di quasi 50 anni, ancora pionieristica – non devono essere soggetti dell’istituzionalizzazione, ma della deistituzionalizzazione. «La salute mentale non è solo la distribuzione di farmaci», afferma don Colmegna, «se valorizzata potrebbe avere un’energia sociale enorme, che porterebbe sicurezza e coesione». Ma come fare quindi per seguire in maniera corretta e rispettosa le persone con problemi psichiatrici? Incentivando la dimensione abitativa e di autonomia. «La distinzione fra struttura residenziale come contesto di trattamento e riabilitazione, e residenza come risposta a un bisogno abitativo in persone che necessitano di assistenza, è importante e necessaria», sostiene il rapporto, proponendo, come possibile soluzione,il passaggio dal sistema delle rette – e quindi del pagamento di un posto in una struttura residenziale – a un progetto personalizzato, che si crea tramite il Budget di salute, definito «strumento centrale di governo dei processi individuali e collettivi, secondo principi e norme dell’integrazione sociosanitaria, che coinvolge, con l’utente, i soggetti istituzionali e i portatori di interesse». Il Progetto terapeutico riabilitativo individualizzato – Ptri, che esplcita azioni e obiettivi da raggiungere sugli assi dell’abitare, della formazione e del lavoro, della socialità e dell’apprendimento/espressività/comunicazione, viene realizzato da un’equipe multidisciplinare e richiede il consenso della persona, che sottoscrive un accordo che definisce gli impegni di ciascuno dei soggetti coinvolti. Uno strumento responsabilizzante e abilitante, quindi.

LA SPERIMENTAZIONE LOMBARDA

Una sperimentazione interessante in questo senso è stata messa in atto in una delle Regioni italiane in cui le comunità terapeutiche – sia pubbliche che private, convenzionate e non – sono più diffuse e distribuite sul territorio: la Lombardia. Secondo i dati diffusi dall’amministrazione regionale, i posti totali nelle strutture psichiatriche per adulti sono 4.256. Il progetto, inserendosi in un programma sperimentale di salute mentale di comunità, ha permesso la chiusura di due strutture psichiatriche, una ad alta protezione nel territorio dell’Azienda socio sanitaria territoriale – Asst della Franciacorta e una a media protezione nell’Asst Santi Pietro e Carlo di Milano. L’obiettivo della sperimentazione (a cui avevano inizialmente aderito cinque aziende, poi calate a due a causa di alcune defezioni) era ridurre i posti letto nelle comunità residenziali protette, riconvertendo i costi in risorse per costruire un’equipe territoriale per la gestione della residenzialità diffusa e per il sostegno nei percorsi di inclusione sociale nelle aree casa, lavoro e socialità. «La domanda di ingresso in comunità è legata al fatto che la persona non è seguita in maniera coerente rispetto a quelli che erano i presupposti della Legge 180», dicono Domenico Castronuovo, psicologo in pensione del Dsm di Iseo e socio fondatore di Cascina Clarabella e Carlo Fenaroli, presidente del consorzio Cascina Clarabella un consorzio di cooperative che si occupa di disabilità psichica, braccio operativo del dipartimento di salute mentale, che gestiva una delle due comunità che sono state chiuse, a Iseo, nella Franciacorta. «Così ci sono moltissime comunità ad alta protezione; solo nella provincia di Varese, per esempio, se ne contano più o meno 40. Circa il 70% delle risorse destinate alla salute mentale vengono assorbite dalle comunità, lasciando solo il 30% all’organizzazione dei dipartimenti». Eppure, la salute mentale territoriale, secondo l’ottica deistituzionalizzante, è essenziale per la riabilitazione delle persone con problemi di salute mentale. «Per quanto fosse bella la nostra comunità, col tempo ci siamo resi conto che vivere in una struttura residenziale tende a far regredire e a passivizzare», continuano infatti Castronuovo e Fenaroli. «È antiterapeutico, si riducono i sogni, i desideri, le speranze per il futuro».

Con la chiusura della comunità ad alta protezione di Cascina Clarabella 14 persone sono tornate sul territorio; il milione di euro che serviva a pagare le loro rette è bastato per coprire i costi per un nuovo tipo di abitare – in case, non in strutture – e per aiutare altri 28 soggetti a rischio di istituzionalizzazione, per i quali sono stati attivati degli interventi individualizzati sul modello del budget di salute. Il nuovo tipo di presa in carico, infatti, permette di risparmiare circa 250mila euro all’anno, che consentono anche di mettere in campo delle strategie territoriali di prevenzione a bisogni residenziali protetti. All’Asst Santi Paolo e Carlo i numeri sono simili: dalla struttura sono stati dimessi 14 pazienti

Uscire dalla comunità e andare a casa, tuttavia, non significa essere lasciati a sé stessi, altrimenti si rischierebbe di ricadere in un nuovo sistema di reclusione. Per evitare il rischio di una chiusura all’interno della propria abitazione vengono individuati degli operatori di budget: persone che accompagnano l’utente nella sua vita autonoma, dandogli supporto in vari ambiti, dalla socialità al lavoro, passando per la gestione dell’economia domestica. «Il concetto che anima tutta la psichiatria post-basagliana è quello della psichiatria di comunità», afferma Paolo Miragoli, medico in pensione, direttore della Unità operativa complessa – Uoc di psichiatria dei Santi Paolo e Carlo fino all’estate scorsa, «che significa fare riferimento alla community, come insieme di risorse presenti in un territorio definito, che permette alla persona di mantenere tutta una rete relazionale che dovrebbe essergli propria in quanto appartenente a una comunità geograficamente definita». Certo, per far questo serve trovare una sintesi tra risorse economiche, professionali e umane per costruire un processo unitario e integrato. E per superare quella separazione troppo netta tra sociale e sanitario che troppo spesso affligge la psichiatria. «Questa intuizione deriva anche dalla verifica che la residenzialità psichiatrica, che pure nel Piano regionale per la salute mentale del 2003-2005 era stata sottoposta a revisione, era diventata altro rispetto a ciò che era stato programmato», continua il medico, «cioè un luogo che rischiava di diventare un “parcheggio” di pazienti piuttosto che un ambito riabilitativo». La residenzialità, infatti, non sarebbe qualcosa di negativo tout court, se si attenesse a quello che dovrebbe essere il suo scopo principale: seguire le persone in maniera completa nei momenti di maggiore bisogno, nell’ottica di una reimmissione sul territorio e non di una cronicizzazione (che invece il documento dell’Iss denuncia).

Un’iniziativa di sensibilizzazione sulla salute mentale a Cascina Clarabella ha avuto come protagonisti il cavallo persano Esso (in foto) e il suo collega blu Marco Cavallo

IL METODO DI LAVORO

La sperimentazione sul budget di salute si concentra principalmente su tre assi, anche se non è detto che ogni utente debba aderire a tutti: lavoro, socialità, abitare. «Le persone ci vengono segnalate dai Cps (Centri psico sociali, ndr) afferenti all’Asst», racconta Serena Ferrario, tecnica della riabilitazione psichiatrica e coordinatrice dei progetti di housing sociale della cooperativa Seriana 2000, che ha realizzato il progetto in partnership con l’Asst. «Poi si lavora insieme all’equipe dei servizi e all’utente per identificare i vari obiettivi. Se la persona dice, per esempio, che vuole lavorare sulla socialità, si possono mettere in campo tutta una serie di proposte, come la partecipazione a percorsi di arteterapia, circo e tessuti aerei, gruppi di supporto. Bisogna immaginare una sorta di centro diurno diffuso, che crea legami e connessioni». Se invece viene individuato come fondamentale l’asse lavoro, gli utenti segnalati con l’articolo 14, e quindi con la possibilità di rientrare nelle categorie protette, possono cominciare con tirocini e formazioni. Ma anche per chi all’inizio ha più difficoltà a mantenere i ritmi di un’azienda, si comincia con piccoli compiti propedeutici. «Una persona nel programma che vive da sola, e che magari ha problemi alla schiena e ha bisogno di qualcuno che le porti giù il cane, chiede una mano a qualcuno che conosce all’interno della residenzialità», dice Ferrario. «Questo diventa una prova di tenuta per il lavoro, perché significa alzarsi tutti i giorni alla stessa ora e assumersi un impegno. Quindi si può passare allo step successivo e quindi all’identificazione di un tirocinio o di una formazione». Per quanto riguarda la sfera abitativa, gli appartamenti sono diffusi sul territorio, ma non per questo dispersi in termini di relazioni. Gli alloggi sono divisi in tre diversi gradi di protezione – quindi di presenza degli operatori – tutti però orientati verso l’acquisizione di una sempre maggiore autonomia. Gli utenti, infatti, si possono organizzare in maniera autonoma e si incontrano una volta a settimana per decidere cosa fare nel weekend. «Non è una situazione così compatta com’era in comunità», afferma la tecnica della riabilitazione, «ma molto vicina in termini di legami; i compagni diventano amici, le relazioni si rinsaldano, le persone vengono aiutate dagli operatori e si aiutano a vicenda».

LA STORIA DI GIUSEPPE

Giuseppe (nome di fantasia) era uno dei 14 utenti della struttura di Cascina Clarabella. Oggi vive in una casa, assieme a un coinquilino, all’interno di un social housing di Palazzolo Sull’Oglio aperto a tutti coloro che vogliano sperimentare una modalità abitativa basata sulla relazione e sulla solidarietà. Va a lavorare per alcuni giorni a settimana e a trovare la madre il mercoledì, ha degli amici al bar. «Mi trovo meglio ora», dice. «È un ambiente più libero, possiamo muoverci da soli; la mattina andiamo a prendere il pane, andiamo al bar. Faccio anche un tirocinio in un’ azienda meccanica. Ho l’appoggio delle nuove amicizie che mi sono fatto, abbiamo anche passato il capodanno assieme». Giuseppe è supportato nel suo percorso dagli operatori della cooperativa Paese di Palazzolo sull’Oglio. «I progetti individuali per coloro che seguiamo sono costantemente in evoluzione», spiega Daniele Cuni, operatore che, assieme all’equipe multidisciplinare della cooperativa, segue l’uomo. «All’inizio venivamo molto di più, quando stava proprio male presidiavamo l’alloggio anche dieci ore al giorno. Piano piano stiamo diminuendo la presenza, finché tra un mese lo lasceremo libero, anche se continueremo a essere reperibili costantemente, come ora». Giuseppe, infatti, sta acquisendo sempre più autonomia. E ha un obiettivo: riprendere a guidare e ricominciare a lavorare tutti i giorni. «Fa stare bene essere più autonomi», dice.

Questa inchiesta è stata realizzata con il contributo di Journalismfund Europe,

Ha collaborato Ludovica Jona


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