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La riforma del lavoro azzoppa il non profit: «Non tiene conto della nostra realtà»

di Maurizio Regosa

La riforma del lavoro, scritta dal ministro Elsa Fornero e avallata dal premier Mario Monti, tiene conto della specifica vitalità del non profit? Pare proprio di no. Agli operatori, che sono preoccupati nel merito, nel metodo e nella fattibilità, pare troppo rigida e ingessata, pensata avendo a cuore in pratica solo il lavoro tradizionale e scoraggiando forme contrattuali dinamiche. «Abbiamo molte perplessità», esordisce Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro, «questa riforma non servirà nemmeno a favorire l’accesso ai giovani che oggi, specialmente in questo settore, avviene seguendo molti percorsi che occorreva guardare più da vicino: il servizio civile, l’apprendistato, lo stage, il contratto a progetto».
Ma se non centrerà l’obiettivo dichiarato di ridurre la disoccupazione giovanile, il disegno di legge non sarà in grado nemmeno di accompagnare il non profit, che in questi anni difficili è stato uno dei settori più capaci di creare posti di lavoro. Occasioni magari non convenzionali, ma che hanno consentito l’avvio di un percorso. «Il ddl esplicitamente indica il contratto a tempo indeterminato come il rapporto di lavoro da perseguire», argomenta Caffo, «senza chiedersi se ad esempio le associazioni possano permettersi di stabilizzare tutti i collaboratori e soprattutto senza riflettere sul fatto che non è detto che sia questa la formula adatta in tutti contesti». Nel mondo della cura e delle relazioni, della sperimentazione e dei percorsi che cercano di determinare risposte ad esigenze spesso ancora non espresse, vi è un altissimo tasso di progetti e di percorsi personalizzati.

Tutti tuttologi?
Come non tenerne conto? «Se una non profit struttura un progetto ad esempio sul bullismo», si chiede il professore, «è ovvio che tende a dotarsi di competenze specifiche, che possono non andar bene per il progetto successivo. Se tocca assumere i collaboratori a tempo indeterminato che si fa?». Li si converte alla tuttologia? «Anche se a parlar male di questa riforma si corre il rischio di passare per quelli che inneggiano al precariato, dobbiamo fare alcuni ragionamenti critici», premette Valerio Neri, direttore di Save the Children: «È vero che i contratti a progetto sono spesso usati in modo improprio nel mercato del lavoro, ma nel terzo settore hanno senso». Le persone sono chiamate a partecipare a iniziative che sono veramente dei progetti. «Perché questo dovrebbe essere il compito del non profit, fare sperimentazioni che diventano poi proposte da presentare alle amministrazioni pubbliche. E per queste sperimentazioni servono contratti flessibili. Se non li hai, diventi un pezzo di Stato….».
Per fare vera innovazione sono necessari strumenti anche contrattuali adeguati. «Perché il lavoro stagionale, per esempio l’assistenza disabili nelle scuola, non è una stranezza, è la norma di cui non si è voluto tener conto», aggiunge Giuseppe Guerini, presidente di Federsolidarietà/Confcooperative, preoccupato anche dell’incremento del costo del lavoro (che condivide con Carlo Marignani, responsabile Politiche del lavoro e relazioni industriali di Legacoop: «La riforma ha raggiunto un buon equilibrio, ma rendere universali gli ammortizzatori sociali avrà un costo»). «Inoltre», sottolinea Guerini, «le cooperative sociali, svolgendo servizi di cura personalizzati, hanno bisogno di molta flessibilità anche nella gestione dei tempi». Insomma, l’esecutivo non ha prestato la necessaria attenzione a un settore così delicato per la vita sociale del Paese («complice lo stesso non profit che ha mostrato un deficit di rappresentanza», annota Caffo). Fatto sta che il ddl non nomina il terzo settore nemmeno dove sarebbe un riferimento obbligato, cioè dove si parla di inserimento lavorativo dei disabili e di politiche per l’impiego. «Si aprono delle possibilità per il terzo settore», conclude Guerini, «ma tutto dipenderà da quante risorse il governo metterà a disposizione per le politiche attive per il lavoro».


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