Welfare

La trasformazione degli spazi: una proposta concreta per Imprese, Scuola e Comuni

Durante la pandemia gli unici luoghi che non si sono trasformati sono gli uffici. A Milano, oggi, sono in costruzione altri grattacieli a uso ufficio, sicuramente commissionati prima della pandemia, ma adesso a cosa serviranno? Perché allora non scommettere su una nuova possibile “sinergia” che immagina realizzabile una generativa partnership tra pubblico e privato, cioè tra scuole e imprese, per assecondare l’obiettivo di una reciproca valorizzazione e il perseguimento del bene comune?

di Gabriele Gabrielli e Riccardo Meloni

Abbiamo visto alberghi trasformarsi in ospedali. Abbiamo visto bar e ristoranti trasformarsi in spazi di coworking. Abbiamo visto terrazzi tra i palazzi trasformarsi in campi da tennis. Abbiamo visto cortili condominiali e parchi trasformarsi in palestre attrezzate. Gli unici luoghi che non si sono trasformati sono gli uffici. A Milano, oggi, sono in costruzione altri grattacieli a uso ufficio, sicuramente commissionati prima della pandemia, ma adesso a cosa serviranno?

Imprese e scuola hanno entrambe un problema di spazi, ma di natura diversa.

Anche la scuola, al pari dell’impresa, ha un problema di spazi (in verità si tratta di una vecchia storia che si trascina da anni). Con una evidente differenza: mentre le imprese abbondano di spazi moderni ed efficienti che rischiano, con i loro costi improduttivi, di appesantire ora i bilanci aziendali, nella scuola invece si soffre perché gli spazi mancano e non sono adeguati alle esigenze di una efficace didattica. Come si potranno riportare in aula, alcuni si domandano, tutti gli studenti delle scuole secondarie di secondo grado, per esempio, o almeno il 70% come una recente indicazione del MIUR invita a fare se questi spazi non ci sono? E poi come fare se gli stessi non sono all’altezza di rispondere alle nuove esigenze didattiche che la tecnologia sembra in grado di supportare?

Questa situazione oggi è aggravata dalla circostanza che la scuola, prima di essere 4.0 come indicato dal PNRR, deve essere “sicura” e in condizioni dunque di garantire il rispetto dei protocolli di sicurezza. La questione spazi, allora, preme come mai prima se si tiene anche in conto la volontà, espressa dal Ministro Bianchi, di ridurre la numerosità delle classi per risolvere l’annoso problema delle “classi pollaio”.

Nella presentazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR Italy) preparata dal Ministero dell’Economia e del Tesoro per il Consiglio dei Ministri del 23 aprile scorso si legge che sono due gli obiettivi chiave da perseguire. Da un lato c’è quello di “riparare i danni economici e sociali della crisi pandemica” e, dall’altro, trova una evidenza particolare la necessità di “contribuire ad affrontare le debolezze strutturali dell’economia italiana”. Identificare un perimetro chiaro e soddisfacente di questi “danni” costituirà una delle sfide più difficili da affrontare anche perché tocca numerosi interessi; una cosa appare certa però ossia che gli stessi non riguardano soltanto le ferite causate dalla pandemia ala vitalità e redditività del tessuto imprenditoriale e produttivo del Paese, ma anche le lacerazioni, in parte collegate, che riguardano il lavoro e la sua organizzazione. Gli scenari al riguardo sono ancora incerti e non ben definiti proponendo alla discussione, come segnalato da questo articolo, differenti ipotesi e configurazioni.

Tutti però sembrano portare con sé una comune implicazione, il progressivo svuotamento (o quantomeno un significativo ridimensionamento) degli spazi molto ampi nei quali le imprese, soprattutto più grandi, avevano organizzato il lavoro. Una trasformazione non di poco momento, anche per i suoi risvolti economici e patrimoniali nei conti aziendali, che non sembra transitoria, piuttosto appare come la conseguenza di una vera e propria rivoluzione strutturale del modo in cui si “starà al lavoro”. In altre parole, anche quando la pandemia sarà risolta, il lavoro agile diventerà strutturale e parte integrante degli assetti organizzativi delle aziende indicando un problema assai spinoso: come disfarsi “produttivamente” delle decine e decine di migliaia di metri quadrati che non serviranno più. Sempre nella presentazione richiamata del PNRR si legge più avanti che tra le sei missioni in cui sono organizzati le riforme e gli investimenti c’è anche quella che riguarda, al punto 4, “istruzione e ricerca”. Tra le azioni previste ce ne sono due strettamente in relazione tra esse: la realizzazione della “Scuola 4.0”, infatti, che significa come viene chiarito poter contare su “scuole moderne, cablate e orientate all’innovazione grazie anche ad aule didattiche di nuova concezione”, non può non passare – come evidenziato più sotto – da un’opera di “risanamento strutturale degli edifici scolastici”.

La proposta

Perché allora non scommettere su una nuova possibile “sinergia”, espressione che piace molto al Governo guidato dal prof. Mario Draghi, che immagina realizzabile una generativa partnership tra pubblico e privato, cioè tra scuole e imprese, per assecondare l’obiettivo di una reciproca valorizzazione e il perseguimento del bene comune? Perché non avviare un tavolo di lavoro che prenda in seria considerazione la fattibilità di una progettazione che consenta di popolare gli spazi lasciati vuoti dalle imprese con gli studenti delle scuole? Il vantaggio per la scuola sarebbe quello di poter disporre di immobili, che non servono più agli scopi delle imprese, di solito ampi, estremamente versatili, sicuri e cablati, facilmente adattabili alle esigenze educative e di una didattica efficace. Un modo per facilitare, accelerandola, la messa a terra dell’azione prevista dal PNRR di risanamento degli edifici scolastici per poter consentire una efficace didattica.

Tale scenario, inoltre, risulterebbe estremamente prezioso per avvicinare i giovani al mondo del lavoro e delle professioni. Questa inaspettata “prossimità” studio-lavoro, infatti, potrebbe generare l’attivazione di progetti di alternanza non più sradicati dalle realtà imprenditoriali del territorio, ma ben piantati all’interno di esse. Le imprese, dal canto loro, potrebbero sostenere il valore immobiliare dei propri spazi attraverso la previsione di crediti di imposta o forme di compenso economico parziale, oltre a svolgere un servizio alle comunità e ai territori in cui sono situate. C’è un’altra prospettiva che può essere di interesse per le imprese. Perché non considerare la partecipazione a questo progetto come una concreta risposta alla volontà – espressa sempre più dalle imprese – di voler concorrere a cambiare l’economia accogliendo il paradigma della sostenibilità? Quale più significativo impatto sociale potrebbero creare con questo impegno a facilitare la riorganizzazione efficiente, efficace e sicura della scuola? Le imprese potrebbero comunque essere remunerate con forme di credito di imposta, canoni calmierati o altro da definire, invece di lasciare grandi quote di immobili di proprietà nei loro bilanci a svalutarsi senza alternative di mercato.

Come si chiude il cerchio?

Per chiudere il cerchio però, potrebbe correttamente obiettarsi, occorre affrontare un’altra questione. Laddove ci siano le condizioni per poter immaginare che in qualche realtà (pensiamo soprattutto alle aree metropolitane, ma anche altre città possono trovarvi spunti di interesse) questa progettualità possa essere concretamente realizzabile, come verrebbero utilizzati gli spazi lasciati liberi dal trasferimento della scuola in altri siti? Un’idea potrebbe essere trasformare questi edifici – soprattutto quelli che innervano le periferie delle città – in spazi organizzati polifunzionali (Luoghi in Comune) valorizzandone per esempio la vocazione ad accogliere – in spazi di co-working – le lavoratrici e i lavoratori che, nelle loro abitazioni, non riescono a trovare il giusto spazio e le altre condizioni per lavorare efficacemente in modalità “agile”.

La loro disponibilità, inoltre, potrebbe rappresentare l’occasione per un ripensamento globale dello spazio con l’obiettivo di trasformarlo in un luogo che integra al suo interno altri servizi destinati alla comunità e di pubblica utilità, come per esempio: centri sociali per giovani ed anziani, palestre di sport popolare, centri antiviolenza, punti enogastronomici di prossimità. Un modo questo per far vivere culturalmente e socialmente i nostri quartieri attivando la creatività e imprenditorialità di tante associazioni, cooperative, imprese sociali ecc. e assecondando lo sviluppo della bio-diversità economica e dell’economia civile.

L’obiettivo, dunque, sarebbe trasformare il problema degli spazi causato dall’irrompere dei nuovi scenari organizzativi in una grande opportunità: attivare una progettualità che coinvolga diversi attori pubblici, privati e la società civile per trasformare spazi in luoghi nei quali apprendimento efficace e lavoro si possano incontrare, avvicinando tra di loro le generazioni, giovani e adulti, studenti e lavoratori, cittadini e imprese. Una progettualità capace di testimoniare come il luogo sia superiore allo spazio che occupa, in quanto lo eccede nella sua dimensione generativa determinata dalle relazioni che esso abilita, attiva e promuove. Un modo per rigenerare risorse anziché sprecarle, secondo i principi dell’approccio della sostenibilità e per mettere attorno a uno stesso tavolo scuole, comuni, imprese e loro associazioni, commercianti, associazioni culturali, cooperative e imprese sociali.

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