Testimonianza

L’adozione? Una ribellione gentile

Lettera aperta di un padre adottivo di due dei tre figli avuti con la moglie Ilaria: «L’adozione è una dichiarazione di guerra alla logica dell’equilibrio: quella che vorrebbe ogni slancio del cuore proporzionato, ogni scelta giustificata, ogni legame tracciabile su un albero genealogico»

di Angelo Palmieri

C’è chi adotta un cane, chi una pianta in via di estinzione, chi una tigre siberiana a distanza. E poi ci sono loro: quelli che adottano un piccolo batuffolo di carne e sogni, un esserino sgualcito dal mondo ma ancora capace di sperare.  Non per moda, né per mitomania. Ma per una chiamata muta, che non ti lascia scappare. Mi tornano in mente le immagini dure e bellissime di Valerio Bispuri, quei bambini incatenati nei corridoi di un orfanotrofio di Karachi, il Sirat ul Jannah. Incatenati perché fragili, perché “sbagliati”, perché troppo bambini per questo mondo incappucciato. Mi attraversa l’immagine di quanto siamo leggeri come un platano, noi che le catene non le vediamo – anche se spesso ce le portiamo dentro. Invisibili, educate, ben potate: ma sempre catene. E mi si affaccia alla mente un’altra figura: quella dei genitori che decidono di fare spazio a un bambino che non hanno generato, ma che sentono come parte di sé. Genitori che non usano il sangue come metro, ma il battito.

L’adozione è una dichiarazione di guerra alla logica dell’equilibrio: quella che vorrebbe ogni slancio del cuore proporzionato, ogni scelta giustificata, ogni legame tracciabile su un albero genealogico. E invece no.  È una ribellione gentile. È il gesto di chi guarda un vuoto e non scappa, ma ci costruisce una casa. O magari una palafitta: ben piantata sopra il mare increspato di cuori spaventati. Farsi famiglia per qualcuno è come aprire la porta di casa a un terremoto: ti rovescia gli arredi segreti del tuo dentro, fa crollare i muri delle abitudini, riscrive l’architettura ordinata dei tuoi giorni. Ma in mezzo a quel disordine, sboccia qualcosa di inatteso: la meraviglia. Non quella eclatante, ma la più fragile: un sorriso che non ti era dovuto, una fiducia guadagnata, una buonanotte sussurrata con la voce rotta e le dita intrecciate.

Quello adottivo non è un amore “in più”. È una forma di legame “a prescindere”. Non ama nonostante, ma attraverso: le paure, le notti bagnate di sogni interrotti, le parole nuove da imparare, le carezze da meritarsi. Quando un bambino adottato ti guarda per vedere se ci sarai ancora domani, non sta chiedendo una risposta. Sta chiedendo un patto.

L’amore, quello vero, non chiede somiglianze: le costruisce

Ci sarò. Quando alzerai difese. Quando spegnerai la luce per non vedere. E ci sarò anche nei silenzi più lunghi, quelli in cui speri che qualcuno resti. Io non me ne andrò. Perché stringere a sé una vita che non ti somiglia non è solo un gesto di cura radicale. È un atto di fede. È credere che una storia spezzata possa delicatamente ricomporsi. Che un legame non abbia bisogno di geni per diventare linfa. Che l’amore, quello vero, non chiede somiglianze: le costruisce.

In fondo, la scommessa su una storia nuova, è l’arte di dare un nome a qualcuno che credevi invisibile. E quel nome, anche se non lo urli mai in piazza, lo porti tatuato nei capillari della circolazione: silenzioso, ma vitale. Un nome segreto che ha il suono di una fiducia ritrovata. E che risuona, ogni volta, a quella cosa semplice e scandalosa che chiamiamo casa.

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