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Laicità, apriamo un secolo nuovo

La proposta di legge sulla libertà religiosa ha rilanciato una questione tutt’altro che accademica: la laicità, di Stefano Zamagni

di Redazione

1.L?idea di base della secolarizzazione è che la religione (e, più in generale, i sistemi di credenze individuali), devono essere confinati alla sfera del privato, non devono cioè contaminare la sfera del pubblico. Il principio di laicità, che discende da una posizione del genere, dice allora che lo Stato deve adoperarsi, con gli strumenti a sua disposizione, affinché tale contagio non abbia a materializzarsi. Di qui la nozione di laicità come indifferenza dello Stato nei confronti delle varie opzioni religiose e dunque il criterio che deve guidare l?azione del legislatore è quello di operare «etsi Deus non daretur». Nella storia italiana, queste idee hanno trovato concreta espressione nella cavouriana «libera Chiesa in libero Stato» e successivamente nell?articolo 7, comma 1 della nostra Carta costituzionale: «Lo Stato e la Chiesa sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani».

È bene ricordare che, nel mondo intero, un solo continente – l?Europa – ha conosciuto un marcato processo di secolarizzazione, a seguito del quale gli individui sono stati ?forzati? a privatizzare i loro principi religiosi. Nulla di simile negli altri continenti. Si prendano gli Usa. Qui la religione, o meglio le religioni, hanno sin dagli inizi occupato la sfera pubblica, contribuendo a forgiare quell?ethos pubblico che ha trovato la sua più alta espressione nella Costituzione americana. Ecco perché negli Usa il principio di laicità, come inteso da noi europei, neppure viene compreso. Il fatto è che la Rivoluzione americana è qualitativamente assai diversa dalla Rivoluzione francese, come Hannah Arendt ha magistralmente descritto. Dalla prima è disceso il principio di neutralità – che significa imparzialità – dello Stato nei confronti delle religioni: lo Stato non può preferire una religione alle altre, ma tutte sono non solo consentite, ma favorite nella loro espressività e operatività. Dalla seconda è disceso, invece, il principio di separazione – che significa indifferenza – tra Stato e religioni, principio che esclude le religioni dalla costruzione dell?etica pubblica. (Ecco perché lo Stato laico europeo deve creare le sue scuole laiche; i suoi ospedali laici, ecc.).

2.Quale la res nova dell?attuale fase storica? Che la laicità della modernità è oggi in crisi irreversibile, dal momento che essa non è più in grado di dare risposte credibili a interrogativi del tipo: quale ha da essere il rapporto tra etica e economia; tra valori fondamentali e diritto; quali risposte dare alle sfide della multiculturalità: come possono soggetti portatori di concezioni di vita assai distanti tra loro vivere in una società politica unitaria; quali sono gli elementi comuni delle diverse matrici culturali presenti in uno stesso Paese che devono entrare nella cosiddetta ?ragione pubblica?. Ebbene, è quando ci si pone di fronte a domande del genere che le persone intellettualmente oneste comprendono perché la secolarizzazione, e la nozione di laicità che essa fondava, sono ormai divenute obsolete. In Europa, lo Stato laico moderno ha potuto praticare il separatismo perché tutti gli attori, quando scendevano nell?arena pubblica, avevano comunque – credenti e non – un comune riferimento valoriale, quello della tradizione cristiana. Come è stato detto, lo Stato laico moderno separa bensì il peccato dal reato, ma non dimentica il Decalogo; propone bensì orientamenti educativi o modelli familiari ma li desume – anche se non lo riconosce esplicitamente – dalla cultura cristiana.

La crisi odierna origina dal fatto che, sotto l?incalzare dei nuovi fenomeni migratori associati alla realtà della globalizzazione, quel comune riferimento alla matrice culturale cristiana è andato, via via, disgregandosi, col risultato che lo Stato laico moderno si è venuto a trovare come impotente di fronte a tutto un insieme di sfide nuove. Pretendendo di continuare ad applicare il principio di separazione, in un contesto che non è più quello della modernità, in cui il riferimento al Decalogo era cosa scontata, lo Stato per continuare ad autoproclamarsi laico non può far altro che fare ciò che oggi si sta osservando. E cioè: quel che è tecnicamente possibile lo Stato deve consentirlo; ciò che l?individuo preferisce, la legge non deve vietarglielo.

Ma una posizione del genere è chiaramente insostenibile perché gravida di effetti perversi. Infatti, per sostenere la tesi secondo cui la legge non può distinguere tra opzioni che riguardano il bene – dal momento che, come esige il relativismo etico, non esiste ontologicamente alcuna distinzione che non sia puramente sintattica tra le morali – occorrerebbe individuare dei principi politici che prescindessero essi stessi da ogni riferimento di valore; principi cioè la cui giustificazione non richiedesse alcun appello alle concezioni del bene che sono in discussione. Certo, ciò è possibile ma ad una sola condizione, quella di accettare di ridurre l?agire politico ad un agire meramente procedurale. In altri termini, occorre prendere atto del seguente dilemma fondamentale: o si riduce la democrazia ad un insieme di procedure razionali ed allora è possibile conservare la nozione moderna di laicità; oppure si vuole che la democrazia si fondi su valori perché si ritiene – con Aristotele – che il fine dell?agire politico sia il bene comune, quella posizione non è più sostenibile. Lo Stato laico che, accettando la concezione proceduralista della democrazia, si autonegasse ogni potere di intervento e di decisione in materie come la struttura e il ruolo della famiglia; la giustizia distributiva; la felicità pubblica; la manipolazione genetica; la definizione di ciò che distingue ultimamente l?umano dal non umano, sarebbe uno Stato che mira alla propria autodistruzione.

3.Quale allora la proposta che, in positivo, si può avanzare? Habermas avanza una proposta che reputo particolarmente afferente e degna di grande attenzione. I cittadini possono portare, in qualsiasi momento e senza restrizione alcuna, nello spazio pubblico le loro convinzioni a sfondo religioso, senza dover sopportare ?costi? per ottenere permessi. Tuttavia, quando si arrivasse alla sfera politica, cioè al momento in cui si tratta di deliberare in merito ad un testo di legge, alle sue ragioni religiose il credente deve affiancare altre ragioni, quelle che possono essere comprese anche dal non credente . E viceversa, il portatore di un credo immanentista o l?ateo, quando si tratta di legiferare, devono saper fornire ragioni che possano essere comprese anche da chi non condivide la loro ideologia. La cifra della nuova laicità sta in ciò: che lo Stato si pone come equidistante da tutte le forme di argomentazione, quale che sia il loro punto di partenza, religioso o meno.

Una conseguenza pratica di questo principio conviene subito porre in evidenza. La tesi, così spesso chiamata in causa nel recente dibattito italiano in materia bioetica, che i cattolici non dovrebbero impedire il varo di leggi al riguardo, è una tesi che viola il principio di eguaglianza, come sopra specificato. Essa infatti depriverebbe i cattolici di ogni influenza nella sfera politica, dal momento che non consentirebbe a costoro di tradurre le ragioni ancorate alla loro fede in ragioni politiche. La laicità della post modernità non può accettare forme simili di discriminazione.

4.Quali implicazioni di ordine pratico per il mondo cattolico discendono da questa prospettiva? Ne indico solo due. Quando il discorso religioso entra nella sfera pubblica, esso è tenuto non solo a rispondere alle eventuali critiche, ma anche ad argomentare, a fornire cioè ragioni a sostegno delle proprie istanze, ragioni che devono poter essere comprese – anche se non necessariamente condivise – dagli ?altri?. è questo un compito non semplice cui il mondo cattolico italiano non è stato abituato in modo sufficiente. Fino a che il discorso religioso veniva relegato alla sola sfera privata, non c?era bisogno di produrre ragioni o argomentazioni per gli altri. Per coloro che si riconoscono nella medesima fede ci sono già teologia e pastorale. Ma quando devo calarmi nell?agorà della polis e confrontarmi con gli altri, non posso sottrarmi al compito di dare ragioni.

La seconda implicazione riguarda le insidie che, almeno potenzialmente, potrebbero celarsi nelle pieghe dei vari tentativi con i quali i cristiani creassero le intese necessarie per giungere a legiferare nella sfera politica. Vi è il rischio della riduzione del cristianesimo a utile tradizione generatrice di convenienti norme sociali di comportamento. è questo il rischio che si corre tutte le volte in cui i cristiani accettano di confrontarsi solamente con quei settori della cultura ?laica? disposti ad accogliere strumentalmente la funzione sociale della religione.

Come scongiurare rischi del genere? La strategia suggerita dal cardinal Ruini con il Progetto culturale della Cei, mi pare pertinente ed efficace: si tratta di portare sul terreno del confronto nella sfera pubblica non solamente i temi della verità e della libertà, ma anche quello dell?amore, cioè della fraternità. Al cristiano non può bastare un orizzonte politico riempito della sola società libera, o della sola società giusta. Il cristiano non può rinunciare a realizzare la società fraterna. E per tendere a ciò, egli deve essere in grado di mostrare che il principio di fraternità, lungi dall?essere un vago sentimento morale, è capace di ispirare scelte concrete dell?agenda politica.

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