Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Economia & Impresa sociale 

L’alba del paradigma delle infrastrutture sociali

Dobbiamo sostituire la retorica del “fare rete” con pratiche di partecipazione che siano finalizzate alla co-progettazione e co-produzione di servizi innovativi di welfare, valorizzando le nuove spinte mutualistiche, le esperienze più consolidate di fare privato sociale, i movimenti per l’abitare, le pratiche di imprenditorialità sociale

di Federico Mento

Il “paradigma della cooptazione” è alle nostre spalle. Nella transizione tra il secolo breve ed il nuovo millennio, la politica ha tentato di costruire un modello di governance finalizzato ad estrarre consenso basandosi sul principio della “fedeltà indotta”. Nel paradigma della cooptazione, le organizzazioni debbono essere fragili e permeabili, anche grazie all’utilizzo di dispositivi normativi che determinano una strutturale asimmetria di potere tra le Istituzioni e le organizzazioni della società civile. Non vi è alcun rapporto sussidiario, queste ultime sono costrette a negoziare non sull’efficacia e sull’impatto degli interventi ma sul piano delle risorse, entrando in un regime di concorrenza tra di loro. Non è affatto un caso che la politica abbia ricorso, durante il paradigma della cooptazione, all’enfasi sull’efficienza, attraverso procedure di affidamento dei servizi di breve periodo, pensate come un laccio per legare il destino delle organizzazioni al potente di turno. Mafia Capitale è stata l’epifania e, al tempo stesso, il crepuscolo del paradigma della cooptazione.

Oggi siamo nel “paradigma della disintermediazione”: l’idea che non vi debbano essere istanze intermedie che organizzino i bisogni e possano articolare risposte collettive. Nel nostro contesto, il fenomeno della disintermediazione assume una doppia configurazione, da un lato, rappresenta il punto di vista del Sovrano: lo stato morale che decide per il cittadino ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Il dibattito sul reddito di cittadinanza ha perfettamente rappresentato la prospettiva della disintermediazione del Sovrano, con il tentativo, a dir poco surreale, di stabilire il paniere di prodotti da vietare o da acquistare attraverso il beneficio. La seconda direttrice, invece, posiziona la disintermediazione nello spazio neoliberale. L’individuo/consumatore non necessita di intermediatori poiché acquista sul mercato le prestazioni di cui ha bisogno, rivolgendosi direttamente al “service provider”. Nel paradigma della disintermediazione, il capitale sociale cessa di essere un asset, le pratiche di partecipazione un ostacolo, l’enfasi sulla trasparenza l’utile grimaldello per ricondurre a più miti consigli coloro che non intendono allinearsi alla nuova governance.

Eppure, nonostante i danni arrecati dall’azione della cooptazione, prima, e della disintermediazione, poi, affiorano, ostinate, istanze di partecipazione che chiedono la parola. Un fitto reticolato di infrastrutture sociali, talvolta spontanee, spesso gemmate da esperienze politiche sociali preesistenti, che già si pensano dentro un differente paradigma. Piuttosto che continuare ad intavolare schermaglie sull’entità delle risorse e sulla mancanza di ascolto da parte della Politica, crediamo sia arrivato il tempo di affermare il “paradigma delle infrastrutture sociali”. Dobbiamo sostituire la retorica del “fare rete” con pratiche di partecipazione che siano finalizzate alla co-progettazione e co-produzione di servizi innovativi di welfare, valorizzando le nuove spinte mutualistiche, le esperienze più consolidate di fare privato sociale, i movimenti per l’abitare, le pratiche di imprenditorialità sociale che configurano un modo differente di generare e distribuire valore, le aggregazioni informali per la gestione dei beni comuni, l’artigianato 4.0 dei makers ecc.

Quale potenza potrebbero avere le infrastrutture sociali se, in luogo di vivere la solitudine della città, fossero un tessuto interconnesso, nodi responsivi in grado di attivare gli altri punti della rete per organizzare nuovi e vecchi bisogni? Immaginiamo un percorso costituente che raccolga attorno a sé questa potenza, oggi dispersa, e tenga insieme sia il piano del pensiero che la dimensione della pratica. Un percorso che parte da uno dei nodi che rischia di essere spento, ma che vorremmo fosse più brillante di prima.

Vi sono tre dimensioni che riteniamo necessario attivare:

  • Comunità, (ri)costruire le reti sociali, implose a causa dell’effetto combinato delle cooptazione e disintermediazione. Da questo punto di vista, rileviamo l’urgenza di avviare una serie di azioni che ci consentano, in primo luogo, di mappare le infrastrutture sociali e riconnetterle in flusso dialogico, che ci aiuti a definire una visione collettiva della città e del ruolo che queste esperienze possono avere nell’abilitare processi di cambiamento.
  • Tecnicalità, le infrastrutture sociali al fine di disarticolare le costrizioni dei paradigmi precedenti devono dotarsi di tecnicalitàstrumenti giuridici e finanziari al fine di proporre soluzioni scalabili per determinare una governance partecipata della città. Servono dunque competenze in ambiti come la valutazione dell’impatto, la gestione amministrativa dei processi di co-progettazione e co-gestione dei beni comuni, nuovi modelli di generazione di valore.
  • Rappresentanza, le infrastrutture sociali debbono immaginare un nuovo modello di rappresentanza politica, distintivo rispetto ai meccanismoi attuali, agile ma, al medesimo tempo, “denso” nella sua capacità di contendere lo spazio discorsivo alle istanze di conservazione e cercare di ricostruire una nuova egemonia nella città.

Questa sfida, lanciata in un momento di crisi del nostro agire e del nostro essere, interroga con forza la dimensione lavorativa, umana e sociali di tutti noi e potrebbe, però, trovare una risposta nell’immagine dell’Aalveare. Proprio partendo da quello che è stato il “nostro” Alveare, quello di Via Fontechiari che fisicamente chiude in questi giorni, ma pensiamo apra un nuovo spazio di idee. Uno sciame di api operose che intende lavorare per il bene comune ma abbia anche altre ambizioni: non solo riparare il tessuto sociale reciso dagli effetti della lunga crisi, ma farsi soggettività collettiva e plurale per provare a rimettere al centro del dibattito il tema irrisolto del diritto alla città.


*Contributo collettivo curato da Federico Mento (Ceo di Human Foundation), a seguito dell'assemblea promossa dall'Alveare il 31 marzo


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA