Famiglia

L’allontanamento raccontato in prima persona

«Appena arrivata in comunità ero un fantasma, l’ombra di me stessa. Stavo annegando, la mia famiglia mi aveva trascinata talmente a fondo che non riuscivo più a respirare. Le educatrici mi hanno aiutata ad uscire da quelle sabbie mobili», racconta Gaia. «Il primo periodo in comunità non è mai facile, ma dopo qualche tempo sono diventato consapevole che fosse stato qualcosa fatto per me e non contro di me», le fa eco Stefano. Ecco le storie di cinque giovani che insieme contano 43 anni di esperienza nel sistema di accoglienza

di Sabina Pignataro

Queste sono le storie di cinque persone che insieme contano 43 anni di esperienza nel sistema di accoglienza. Storie raccontate in poche righe, all’interno delle quali, però, confluiscono i vissuti di molti altri ragazzi e ragazze che hanno alle spalle un allontanamento e hanno vissuto parte delle loro vite “fuori famiglia”. I ragazzi e le ragazze che ogni anno escono da percorsi di tutela in Italia sono circa 5mila. Le cinque persone di cui raccontiamo, insieme a tanti altri, fanno parte del Care Leavers Network Italia, progetto promosso dall’Associazione Agevolando: una rete di ragazzi e ragazze che si confrontano tra loro sulle proprie esperienze di accoglienza, in una prospettiva partecipativa e di cittadinanza attiva. Tutti quanti loro hanno vissuto un primo momento di disorientamento a seguito dell’affidamento eterofamiliare, ma nel tempo sono riusciti a capire e a riconoscere nell’allontanamento la scelta più tutelante per sé stessi.

«L’obiettivo dell’accoglienza “fuori famiglia” – racconta Stefano – è non solo quello di permettere al bambino di vivere un’infanzia più serena perché tutelata, ma anche di consentire alle famiglie di origine di concentrarsi sulle proprie vulnerabilità. È un percorso che punta a un futuro riavvicinamento, che però può realizzarsi soltanto se, oltre ai ragazzi, anche le famiglie lavorano su se stesse».

L’obiettivo dell’accoglienza “fuori famiglia” è non solo quello di permettere al bambino di vivere un’infanzia più serena perché tutelata, ma anche di consentire alle famiglie di origine di concentrarsi sulle proprie vulnerabilità. È un percorso che punta a un futuro riavvicinamento, che però può realizzarsi soltanto se, oltre ai ragazzi, anche le famiglie lavorano su se stesse

Stefano

«Per noi e per molti altri – prosegue – l’accoglienza in comunità o famiglia affidataria ha comportato la possibilità di incontrare nuovi punti di riferimento, instaurare relazioni sane, ricevere cura: vivere insomma una vita “normale”. Grazie a questa esperienza di vita abbiamo avuto uno spazio per crescere, che ci ha offerto nuove opportunità che non avremmo potuto avere se fossimo rimasti nella nostra famiglia di origine. Alla luce di queste considerazioni, chiediamo quindi a chi si occupa di questi temi di impegnarsi a preservare, implementare e costruire un sistema di accoglienza e tutela sempre più efficace, ma a partire da quello che c’è: il fatto che ad oggi il sistema non sia perfetto non è un buon motivo per distruggerlo. Anzi».

Per noi e per molti altri l’accoglienza in comunità o famiglia affidataria ha comportato la possibilità di incontrare nuovi punti di riferimento, instaurare relazioni sane, ricevere cura: vivere insomma una vita “normale”

Stefano

Ecco le loro testimonianze

Marcela: «In comunità ho potuto essere bambina»
Vivevo in una casa dove ero circondata da problemi di adulti dovuti ad una cultura d’origine basata su principi patriarcali, sessisti e oppressivi e stavo per rimanerne sommersa. In seguito all’intervento dei servizi sociali sono stata collocata, contro la volontà dei miei genitori, in una comunità per minori. È qui che ho trovato uno spazio sicuro dove finalmente potevo essere bambina e concentrarmi sui miei interessi e sui “problemi” tipici di quell’età. Essere allontanata dalla mia famiglia d’origine mi ha permesso di sfuggire a quei comportamenti normalizzati della realtà dalla quale provenivo che probabilmente avrei interiorizzato senza mai sapere ci potesse essere un’altra scelta. Quando non si conoscono alternative non ci si interroga sulla giustizia o meno della propria realtà.

Adi: «Sono rimasta in comunità per scelta»
Non sono entrata in comunità per mia volontà, ma ci sono rimasta per mia scelta. Ho scelto di non rientrare a casa con mia madre, che aveva una patologia psichiatrica alla quale non si poteva “rimediare”. Per quanto sia stato travagliato l’inizio di questo percorso mi ha permesso di (ri)conoscere il modo in cui vivere una vita dedicata a me stessa, di stringere dei legami relazionali sani; ho capito che l’affetto, la stima, la condivisione e l’accettazione potevano avere un’altra veste rispetto a quella che conoscevo “prima”. E per questo sono e sarò sempre profondamente grata.

Carol: «Non potevo tornare a casa perché una casa non ce l'avevo»
Quando avevo un anno i miei genitori si sono separati e nessuno dei due poteva tenermi. Sono cresciuta, quindi, in famiglia affidataria, con i miei zii. Per 16 anni sono stata sotto il loro tetto, ma la mia infanzia e la mia adolescenza non hanno mai avuto una casa. Perché il termine "casa" non descrive solo le mura di un appartamento: dovrebbe comprendere in sé anche e soprattutto amore, cura, rispetto. Tutto ciò che a me è mancato. Non potevo tornare a casa perché una casa non ce l'avevo: vivevo dentro una prigione, dove violenze fisiche e psicologiche erano il pane quotidiano. Per 16 anni non sono potuta uscire di casa, se non per andare a scuola. Quando tornavo dovevo pulire, cucinare, badare a mia cugina più piccola. Non avevo tempo per studiare, ma che importava? Il mio destino era quello di diventare una "donna di casa" e se non facevo quel che dovevo (ma anche se lo facevo), erano botte. A 15 anni ho chiamato Telefono Azzurro. Sette mesi dopo – troppi – l'allontanamento e la comunità. Per quanto il percorso non sia stato facile né tantomeno perfetto, quel 14 agosto del 2012 io sono rinata. Oggi quella data segna il mio secondo compleanno, quello più importante.

Per quanto il percorso non sia stato facile né tantomeno perfetto, quel 14 agosto del 2012 io sono rinata. Oggi quella data segna il mio secondo compleanno, quello più importante

Carol

Stefano: «E se fossi rimasto a casa?»
All’età di 15 anni sono stato allontanato dalla mia famiglia ed inserito in una comunità minorile. Ero estremamente triste, arrabbiato e dubbioso, però la domanda che mi pongo sempre è: “E se fossi rimasto a casa?”. Lì mi rendo conto che non potevo rimanere a casa, perché, anche se considerabile una famiglia normale, senza problemi economici, rimaneva un contesto debilitante, mio padre anche se separato da mia madre esercitava un potere su di me e mio fratello importante, di terrore, sul quale non si poteva contare per un sostegno senza che si ricadesse nella violenza; mia madre al contrario, pur essendo una donna splendida non era più in grado di controllare me o mio fratello. Quindi dopo diversi anni persi di scuola e la seria possibilità che io rimanessi nella bolla che mi ero costruito nel tempo a casa – che molto probabilmente mi avrebbe isolato da qualsiasi contesto, facendomi rimanere solo – il servizio sociale decise che fosse il momento di allontanarmi dalla mia famiglia per salvaguardarmi. Ovviamente il primo periodo in comunità non è mai facile, ma ero diventato consapevole dopo qualche tempo che fosse qualcosa fatto per me e non contro di me, soprattutto perché quel lasso di tempo mi permise di guardare alla mia condizione con un occhio diverso, facendomi vedere la difficoltà della mia famiglia e mettendo in luce una parte di me che era rimasta sopita, dandomi la possibilità di conoscermi e di affrontare le mie difficoltà con il mio tempo.

Gaia: «Ero un fantasma»
Appena arrivata in comunità ero un fantasma, l’ombra di me stessa. Stavo annegando, la mia famiglia mi aveva trascinata talmente a fondo che non mi ricordavo neanche più cosa ci fosse in superficie, che non riuscivo più a respirare. Le educatrici mi hanno aiutata ad uscire da quelle sabbie mobili, mi hanno aiutata a scoprire chi sono, a smettere di essere chi pensavo che gli altri volessero che io fossi, grazie a questo percorso mi sono riappropriata della mia vita.

Per conoscere altre storie di ragazzi tra i 16 e i 26 anni che vivono o hanno vissuto un periodo della vita “fuori famiglia”, esce oggi il podcast "FUORI FAMIGLIA" a cura dei ragazzi del Care Leavers Network Lombardia in collaborazione con il CNCA e con Melting Pod. Nelle 5 puntate di questo podcast vengono raccontate in prima persona le esperienze dei ragazzi del CLN Lombardia, i loro vissuti, le difficoltà e le sfide quotidiane. Per info: www.agevolando.org

Foto in apertura, Unsplash

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