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Lampedusa, oltre la banchina

di Giulio Cederna

Dagmawi Yimer e Zakaria Mohamed Ali sulla banchina di Lampedusa (Foto di Mario Badagliacca)

Pur condividendo l’etimologia e il novanta per cento del corredo fonetico, è difficile immaginare due luoghi più diversi di una panchina e una banchina. A determinate ore del giorno anche la banchina del porto può far calare le palpebre e ispirare la siesta, ma è per lo più spazio di lavoro, traffici, uomini in movimento. E’ raro vedere gente seduta o con le mani in mano. Un’eccezione alla regola si è avuta a Lampedusa durante la stagione degli sbarchi con la procedura della “messa in ordine” degli immigrati sulla banchina del porto, immagine da cui parte l’antropologo Gianluca Gatta nel bel saggio Luoghi migranti, tra clandestinità e spazi pubblici (Luigi Pellegrini editore) per riflettere sugli effetti della presenza dei migranti nei cosiddetti luoghi terzi della socievolezza, i bar, i caffé, le piazze.

Riguardiamo mentalmente al rallentatore la sequenza, trasmessa a loop dai tg negli scorsi anni. Vediamo in campo largo una barca che attracca, distinguiamo a bordo dei corpi dichiaratamente stranieri per tratti somatici e abbigliamento. Li osserviamo sfilare al rallentatore su una passerella, visibilmente stremati, davanti a un ufficiale intento ad associarli ad un numero. Altro stacco e vediamo i corpi seduti sul molo, lo sguardo perso sulla folla che gli si è accalcata intorno, un mix eterogeneo di poliziotti, fotografi, operatori umanitari. Stiamo assistendo allo “spettacolo del confine per eccellenza”, e insieme alla costruzione/esibizione simbolica della condizione giuridica della clandestinità: privati del nome, dei diritti di cittadinanza e di parola, ridotti a meri corpi numerati– corpi abusivi e quindi pericolosi, e insieme corpi in pericolo, da salvare -, i migranti debuttano sulla scena con una rappresentazione che unisce profilassi securitaria e umanitaria, controllo e presa in carico, paura e desiderio, pericolosità e utilità, “un circolo rappresentativo – ricorda Gatta – in cui restano inevitabilmente incastrati”. Non hanno voce, sono riconoscibili unicamente come figure sociali stereotipate, ma all’occorrenza possono tornare utili, costituire una forza lavoro flessibile, sempre disponibile e altamente ricattabile.

Legata a filo doppio al fenomeno degli sbarchi e alle tante distorsioni con cui è stato propagandato in questi anni, anche Lampedusa ha finito per essere ridotta sic et simpliciter alla sua stessa banchina. Uno sforzo importante per restituire profondità all’isola e dignità ai migranti è stato compiuto in questi anni dall’associazione locale Askavusa (a piedi scalzi). Dopo essersi distinta nei soccorsi durante le stagioni calde degli sbarchi, dal 2009 Askavusa organizza ogni anno un festival del documentario sulla migrazione, il Lampedusa in Festival. L’edizione di quest’anno si è appena conclusa con l’assegnazione del premio della sezione migranti a Vera di Francesca Melandri, un film importante “che invita a non processare la storia ma ad analizzarla, capirla, condividerla ed impegnarsi evitando cosi che si ripetano gli stessi errori”, recita la motivazione della giuria. La notizia tuttavia è un’altra: la sezione era coordinata dal filmaker etiope Dagmawi Yimer, sbarcato a Lampedusa nel 2006, e la giuria era composta per tre quarti da migranti. La foto in alto mostra per l’appunto un giurato, il giornalista somalo Zakaria Mohamed Ali, seduto su una bitta nel punto preciso della banchina in cui ricorda di essere abbittato con un gommone e altre trenta persone nella primavera del 2008. Grazie ad Askavusa e all’Archivio delle memorie migranti, Zakaria è potuto tornare sull’isola da uomo libero per valutare i film in concorso, ritrovare frammenti della sua storia e scoprire l’isola. Oltre la banchina e il muro di cinta del centro in cui fu recluso per una settimana prima di essere deportato sul continente.

PS: Scrive Predrag Matvejevic in Breviario Mediterraneo:  “Gli abitanti delle isole sono meno spensierati della gente della costa proprio per il fatto di essere separati. Ciononostante accettano i nuovi arrivi più facilmente di quanto facciano gli altri, forse anche per il fatto che, quando passano il braccio di mare che divide l’isola dalla terra, anche loro diventano nuovi arrivati, oppure perché si ricordano di essere pure essi venuti, una volta, da un altro luogo”.

 


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