Non profit
L’Aquila anno uno, così si torna a volare
Viaggio nei luoghi e tra le persone del terremoto, a un anno dalla scossa fatale
di Redazione
C’è chi dorme in una roulotte, fa tre lavori e non rinuncia al volontariato.
Chi ha rimesso in piedi l’impresa di famiglia.
Chi prova a ripartire tra i viottoli del progetto C.a.s.e. Le tante tessere di un puzzle chiamato ricostruzione. Dove la sfida più grande si chiama lavoro
L’Aquila
A L’Aquila che tipo eri lo si capiva dal portico che occupavi. Ce ne era uno per compagnia: i truzzi da una parte, i fighetti dall’altra e poi i punk, gli alternativi e così via. Ogni portico, la sua tribù. Oggi, un anno dopo, di piazza Duomo sono rimaste solo le briciole, ma i giovani aquilani non hanno rinunciato alla loro geografia. Solo si sono spostati qualche chilometro più a ovest. All’Aquilone. Il centro commerciale è la nuova piazza della città. Musica di sottofondo, 37 negozi, tre punti ristoro e un supermercato. Ma soprattutto centinaia di ragazzi che scorazzano per i lunghi corridoi. Ce ne sono tanti. Tantissimi al sabato pomeriggio, quasi non si riesce a camminare. I nuovi portici sono qui, all’ombra delle luci al neon. Le tribù si sono ricostituite.
Sulla collina di fronte al parcheggio del superstore, ai tempi del G8, apparve una scritta fatta coi sassi bianchi che fece il giro del mondo: «Yes, we camp«. La versione originaria naturalmente era, «Yes, we can». E alla vigilia del primo 6 aprile dopo terremoto, in tanti in città sarebbero pronti a sottoscrivere lo slogan obamiano. Imprenditori, volontari, professionisti, ristoratori, manovali, in una parola ricostruttori. A tenerli insieme la scala delle priorità («il lavoro prima di tutto», nel periodo maggio-giugno 2009 le ore di cassa integrazione in provincia dell’Aquila sono state 7.500.000, 800mila nel 2008, dopo il sisma oltre mille partite Iva non hanno riaperto e 850 esercizi commerciali del centro hanno definitivamente abbassato la saracinesca) e una convinzione irremovibile: «chi se ne va è un codardo».
Anche la nuova sede della Croce Bianca cittadina si trova ai bordi della città. La memoria torna al 6 aprile 2009. Le prime immagini dal cratere trasmesse da Studio Aperto immortalavano un’autoambulanza che filava a sirene spiegate verso l’ospedale San Salvatore. Su quel mezzo c’erano Gaetano Mangione e suo figlio Giovanni, detto Max. «Un’ora dopo eravamo già all’opera», ricorda Gaetano, che, ironia della sorte per una città terremotata, di mestiere fa l’amministratore condominiale. «È stato un anno pieno di ostacoli», dice, «a partire della sovraesposizione della Protezione civile che di fatto ci ha tolto visibilità e di conseguenza volontari». Sono stati in molti a mollare la Croce negli ultimi mesi. «Alcuni sono andati in crisi depressiva, altri non hanno avuto più tempo per il volontariato». Il risultato è che oggi la Pubblica assistenza dell’Aquila conta appena 15 volontari (prima del sisma erano 130).
Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia: l’impetuoso spontaneismo che ha visto nascere su questo territorio una cinquantina di nuove realtà, fra comitati e associazioni formalmente costituite. Lo stesso Mangione sta mettendo in piedi un servizio simil-banco alimentare: «La mancanza di lavoro sta producendo nuove emergenze, mai prima d’ora mi era capitato di rispondere al telefono a disperati che minacciassero il suicidio. In questa settimana è già accaduto due volte: pensate solo che la mensa dei poveri dei Celestiniani, che aveva 60 posti, sarà ricostruita con 400 coperti». Ma il vero paradosso è un altro: «Noi siamo ridotti ai minimi termini, anche se abbiamo già riavviato i primi corsi di formazione, ma a Lanciano su nostro input è nata una nuova Croce Bianca con 150 iscritti e 60 volontari attivi, una specie di miracolo».
L’altro termometro è il traffico. Un anno fa il capoluogo abruzzese era una città fantasma, oggi muoversi in auto è quasi un incubo. La spina dorsale del cratere è la statale 17 lungo la quale, appena usciti dalla città, si trova Bazzano. Sul lato destro della strada si scorge subito un quartiere di cosiddetti map (moduli abitativi provvisori, in tutto saranno una quarantina di abitazioni, la metà delle quali all’apparenza non occupate), introdotti da una piccola chiesetta in legno. La cappella di Santa Giusta, dal nome della chiesa di Bazzano, oggi completamente inaccessibile. Padre Roman Slugocki è il parrocco di questa nuova comunità che prima contava 500 persone e oggi con gli sfollati arriva a 7mila. «Il problema è che mentre prima la chiesa era sempre piena, portare la gente in cappella è davvero complicato». Oggi per esempio alla messa delle 17.30 si fa fatica ad arrivare a dieci. Il terremoto ha sbriciolato la fede dei bazzanesi? «Non credo», ribatte il prete polacco, «il fatto è che gli anziani senza marciapiedi e semafori non si fidano ad arrivare quaggiù. Ma io non demordo, con la Caritas stiamo organizzando centri di ascolto e doposcuola per i bambini».
Poche centinaia di metri più in là nella parte del paese, ribattezzati con i nomi dei grandi cantautori italiani, ci sono i viottoli del progetto C.a.s.e. Al primo piano della terza palazzina di via De Andrè abita il signor Egidio, ex dipendente della Banca d’Italia. Della sua casa lamenta qualche difettuccio strutturale («Non ci sono prese differenziate. Per spostare la tv bisogna usare le prolunghe. La lavatrice è troppo grossa e va spostata in mezzo al bagno altrimenti la porta non si chiude e infine in camera da letto l’armadio copre gli interruttori della luce»). Piccoli inconvenienti. «In fondo stiamo bene, anche se non si capisce perché non ci abbiano assegnato una casa ad Assergi, dove abitavamo visto che lì ce ne sono un sacco che non vuole nessuno perché sono state costruite lontano dal vecchio paese».
«Fosse solo questo il problema», interviene il traballante («del Pd mi sono rimasti 9 consiglieri su 40, non credo che avrò vita lunga) sindaco Massimo Cialente nella sua veste di vicecommissario alla ricostruzione: «Il dramma vero sono quei 1.550 nuclei familiari – la maggior parte single – di cui abbiamo perso le tracce e che non rientrano in alcun progetto di assistenza». Per scoprire dove siano basta solo percorre qualche chilometro sempre sulla statale 17, fino a Picenze.
Dalla collinetta del suo appartamento quasi si vedono i capannoni della Edimo di San Gregorio. Si occupa di coperture industriali, montaggio di prefabbricati e facciate in alluminio. Nel 2009 senza il terremoto avrebbe messo a bilancio 140 milioni. Grazie alla ricostruzione post sisma è arrivata a quota 195 milioni con un incremento del numero degli addetti – ora 500 persone – di oltre il 20%. Danilo Taddei è l’amministratore delegato. «Non ditemi che è una fortuna: la qualità della vita è decisamente più bassa, L’Aquila era un gioiellino, nel week end si andava tutti in centro a passeggiare e mangiare la pizza, ora siamo costretti a starcene in casa». O in fabbrica. «Eh, sì qui da noi il lavoro c’è anche di notte». I ricostruttori non hanno tempo da perdere.
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