Welfare
Lavoro, la primabvoce dell’agenda
La sfida chiave del 2009 Una sfida economica, sociale ma anche culturale
di Redazione

Tra i tanti disastri che la finanza d’assalto ha seminato dietro di sé, c’è anche la minaccia all’occupazione nell’economia reale. Ma per ripartire
non bastano la politica e l’economia. Ci vuole una coscienza nuova… di Luigino Bruni
I l lavoro oggi è sottoposto ad una tensione paradossale: da una parte la nostra vita e le nostre famiglie sembrano essere occupate o invase interamente dal lavoro; dall’altra, però, il lavoro è minacciato, precario, fragile, insicuro, sempre più vulnerabile e relegato sullo sfondo del nostro modello di sviluppo.
Il lavoro non è sempre stato un valore: lo abbiamo scoperto come cosa buona recentemente, nel Medioevo, quando è avvenuta la prima grande rivoluzione nella cultura del lavoro. Fino alla civiltà cittadina medievale, al vertice della piramide sociale c’erano i “non lavoratori”, cioè redditieri, ecclesiastici o aristocratici, che non potevano e non dovevano lavorare.
Nel mondo greco, e in parte in quello romano, il lavoro non era “vita buona” né, tantomeno, fioritura umana. Il lavoro non era considerato attività degli uomini liberi, ma realtà legata a rapporti di potere e di dominio. La vita buona è vita politica, e nella politica non c’è posto per i lavoratori, che non potevano ricoprire cariche pubbliche; lavoravano soprattutto gli schiavi, che consentivano così agli uomini liberi di affrancarsi dalla più radicale delle schiavitù: quella delle necessità vitali.
Durante il Medioevo, e grazie anche alla maturazione dell’evento cristiano nella storia, inizia una lenta ma radicale rivoluzione nel modo di intendere il lavoro, che viene via via rivalutato e posto al centro della vita civile. Da una parte, grazie ai grandi movimenti monacali (basterebbe solo pensare all’ ora et labora benedettino) in Occidente e in Oriente, all’influenza ebraica in Europa, alla cultura cittadina e dei suoi artigiani-artisti, in seguito al carisma francescano, e poi alla riforma protestante, nel Vecchio continente si è iniziato ad associare il lavoro all’uso responsabile del tempo e delle cose. È nata un’esperienza e cultura del lavoro che sono state all’origine della rivoluzione commerciale e industriale, da cui è nata l’economia moderna come oggi la conosciamo.
Questa visione che possiamo chiamare “classica” del lavoro, nel XX secolo ha ceduto il passo ad una nuova idea di lavoratore, ad una nuova antropologia e cultura del lavoro che è stata il frutto di due movimenti che si sono concepiti alternativi tra di loro, ma che in realtà erano più vicini di quanto si possa pensare in superficie: quello liberal-individualista e quello marxista-socialista. Dallo scontro di queste due vere e proprie civiltà, è emerso nel XX secolo qualcosa di nuovo circa il modo di intendere il lavoro e il lavoratore, un nuovo umanesimo del lavoro che oggi si sta esprimendo in tutte le sue potenzialità – e che porta ben distinguibili i cromosomi dei suoi “genitori” (individualismo e marxismo).
Il lavoro è così diventato il nuovo “baricentro” della società. Se nel mondo antico il lavoro non era attività nobile e degna del cittadino, dalla modernità in poi accade esattamente il contrario: una persona che non lavori in età attiva è vista quanto meno in modo sospetto e come cittadino di seconda categoria. Inoltre, il lavoro diventa poi un criterio importante nella redistribuzione della ricchezza che un sistema economico produce, e molto ancora, un criterio che resta un punto di riferimento ineludibile, e ci porta a provare un senso di iniquità quando vediamo ricchezze guadagnate speculando su titoli, o con il gioco, o quando vediamo stipendi di manager che sono centinaia di volte superiori a quelli dei loro dipendenti.
Il nuovo anno si sta aprendo con una nuova e forte attenzione al tema del lavoro. E ciò ci deve trovare felici, poiché la prima strada per uscire da qualunque crisi economica si chiama lavoro. Oggi occorre ricordare questa antica verità, poiché parlare di consumo, invitare a consumare di più, è uno slogan che frustra e offende chi è disoccupato o rischia di diventarlo presto. Consumare ha il suo senso e il suo valore in società dove la priorità è data alla creazione di lavoro.
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