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Le social street dieci anni dopo: cosa c’è da cambiare?

L'intervento del fondatore della prima esperienza di social street in via Fondazza a Bologna: «Negli Stati uniti ho sperimentato la rinnovata vitalità degli orti urbani: un modello da studiare»

di Federico Bastiani

Quante volte siete entrati in un bar pieno di gente ed una volta fatta l’ordinazione non avete trovato posto per sedervi e avete vagato con il piattino del caffè in mano? A Bologna esiste il Bar Maurizio, uno storico locale dove Maurizio svolge il ruolo di “facilitatore di relazioni”. Se tutti i tavolini sono occupati, esce da dietro il bancone, osserva le persone che sono sedute ed invita il cliente ad unirsi ad uno dei tavoli. Di solito l’abbinamento avviene con criterio, se ad esempio il cliente è straniero, Maurizio gli propone chi parla inglese. Il Bar Maurizio è così diventato una sorta di comunità informale. È lo stesso spirito con cui, dieci anni fa, creai la prima Social street a Bologna, quella di Via Fondazza. A differenza di Maurizio, ho un carattere più introverso, quindi per diventare “facilitatore di relazioni” utilizzai uno strumento tecnologico, il social network Facebook. L’obiettivo era quello di sfruttare la tecnologia per connettere le persone nel mondo reale. Il mezzo tecnologico serviva per abbattere la barriera della diffidenza, per poi connettere i vicini di casa nella vita reale. Sono trascorsi dieci anni da quell’esperimento e da allora la funzione dei social network è cambiata. Lo slogan di Facebook era bringing people closer together e la social street utilizzava lo strumento proprio con quella finalità. Lo slogan che creammo insieme al co founder, Luigi Nardacchione, fu “dal virtuale, al reale, al virtuoso”. Unire i vicini di casa, creare relazioni sulla base dell’informalità organizzativa, era questa l’innovazione sociale e la sfida. Può una comunità a legami deboli, autogestirsi senza alcuna formalità organizzativa? Senza costituirsi in forma associativa, senza individuare una leadership, senza utilizzare fondi? Era solamente l’esempio di buon vicinato a guidare le social street e ad ispirarne la formazione in ogni parte del mondo. L’esperimento è in parte riuscito. Era una sfida ardua ed infatti non sono state tante le social street che sono riuscite a sopravvivere basandosi su queste dinamiche. 

Dieci anni fa ci ponemmo la seguente domanda, «perché connettere solo persone che abitano lontano quando possiamo creare relazioni reali basate sul vicinato?». Oggi i social network hanno cambiato mission, l’obiettivo è quello d’intrattenere l’utenza on line in modo passivo. È stato Tik Tok per primo a cambiare l’approccio e a ruota tutti gli altri hanno seguito la tendenza. Basta osservare la time line di qualsiasi piattaforma, i post degli “amici” sono sempre di meno e vengono messi in evidenza contenuti di altro tipo customizzati in funzione dell’utente. Al social network interessa tenere la persona connessa on line, non portarla nel mondo reale. Alla luce di questa osservazione mi sono chiesto: se avessi creato le social street oggi, avrebbero avuto lo stesso successo? Probabilmente no. Ci sono sempre meno occasioni e necessità di relazionarsi con gli altri.

Al social network interessa tenere la persona connessa on line, non portarla nel mondo reale. Alla luce di questa osservazione mi sono chiesto: se avessi creato le social street oggi, avrebbero avuto lo stesso successo? Probabilmente no. Ci sono sempre meno occasioni e necessità di relazionarsi con gli altri

— Federico Bastiani

Che ruolo svolgeranno le tecnologie sul futuro delle relazioni? Meta (Ex Facebook) ha deciso d’investire notevolmente nello sviluppo del Metaverso, un mondo virtuale dove si accede attraverso un visore per vivere esperienze immersive. Meta sta testando in alcuni Paesi il sistema Horizon che, a parte l’ambito lavorativo (Horizon Worksroom), prevede anche la possibilità di interagire, socializzare, giocare (Horizon Worlds) oppure andare insieme ad un concerto virtuale con gli amici senza muoversi dalla propria stanza (Horizon Venues). Stiamo parlando di test perché Meta è consapevole del fatto che l’introduzione del Metaverso avrà molteplici ripercussioni sulla vita delle persone e sulla società. Per questo motivo ha commissionato uno studio globale indipendente coinvolgendo diverse università sparse nel mondo. Il gruppo di lavoro è coordinato da Mel Slater, uno dei massimi esperti di neuroscienze sociali. Per l’Italia è stato coinvolto il Politecnico di Milano con un gruppo di lavoro coordinato da Giuliano Noci e Lucio Lamberti ordinario di marketing al Politecnico e responsabile scientifico del “Metaverse Marketing Lab”. Il Metaverso cambierà il modo di relazionarsi. Oltre a fare riunioni di lavoro come se fossimo in presenza, perché i visori di ultima generazioni sono in grado di riprodurre anche le espressioni facciali dei propri avatar, sarà possibile partecipare a concerti nel Metaverso insieme agli amici senza essere fisicamente insieme ma chiusi nelle proprie stanze. Che impatto avrà tutto questo sulle relazioni umani? 

West Side Community Garden

In Giappone sono ormai diffusi ristoranti dove il cliente non deve interagire con altri essere umani ma con dei robot, così come per fare check-in negli hotel. Negli Stati Uniti è stato testato il primo McDonald che funziona interamente senza la presenza di essere umani. Le relazioni fisiche non sembrano essere fondamentali nel futuro che le tecnologie stanno disegnando. A parte le app di dating come Tinder, le tecnologie non favoriscono occasioni d’incontro nella vita reale.

Liz Christy Community Garden

Ho trascorso recentemente un mese a New York interrogandomi sulle modalità di socializzazione che la città può offrire. Secondo UN Habitat, entro il 2030, il 70% della popolazione mondiale vivrà in città. Ci aspetta una vita di relazioni virtuali, di tempo trascorso tra lavoro ed intrattenimento on line? Le città che ruolo svolgeranno in tutto questo? New York è un’interessante caso studio. È una città che accoglie cittadini da ogni angolo del pianeta. Quanto è difficile integrarsi ed interagire con le persone in una città frenetica come la grande mela? Escludiamo i colleghi di lavoro o gli “amici” della palestra o del bar, quale altre forme di interazione esistono nel mondo reale senza usare tecnologie? A New York questo ruolo è svolto dai community garden, una sorta di social street. Ne esistono circa 550 nella sola Manhattan. Il più antico è il Liz Christy Community garden fondato nel 1973. È impossibile non notarlo. È l’unico giardino in tutta Manhattan ad avere una sequoia piantata al suo interno che spunta tra i palazzi.

Negli anni 70 New York viveva una stagione di degrado urbano. La città non aveva disponibilità finanziaria per gestire gli spazi urbani e delegò molte attività ai privati. Liz era stufa di celebrare il compleanno della propria figlia nel piccolo appartamento dove risiedeva. Davanti la sua casa, dove oggi c’è il Liz Christy Community Garden, c’era uno spazio abbandonato trasformato in una discarica. Liz insieme ad alcuni vicini di casa, decise in modo “illegale”, (una sorta di guerrilla gardening) di sistemare lo spazio e trasformarlo in un orto urbano e community garden. Oggi a gestire il giardino c’è Donald Loggins, di origini palermitane, che insieme ad una ventina di volontari, si prende cura di quello spazio che è diventato un luogo d’incontro per la comunità. Anche il West Side Community Garden, che si trova nell’Upper West Side, è diventato un gruppo con oltre 300 membri che si prende cura del giardino e dell’orto. Il 4 luglio ero lì a festeggiare con loro la Festa d’Indipendenza. Ognuno ha portato qualcosa da mangiare ed è stato così creato un momento d’incontro e condivisione tra i residenti della zona. Judy Robinson, che gestisce il giardino, mi racconta che il comune non fornisce alcun tipo di aiuto nella gestione ma trovandosi su uno spazio pubblico, l’accordo è di garantire l’accesso alle persone mantenendo aperto il cancello per un certo numero di ore al giorno. Tutti i community garden, a differenza delle social street, hanno dovuto costituirsi sotto forma di soggetto giuridico e la maggior parte fa pagare una quota associativa. Come racconta Paul, che insieme alla moglie Madeline, gestisce l’Electric Ladybug community garden ad Harlem, far pagare una quota è stato importante non tanto per coprire le spese quanto per responsabilizzare le persone che gravitano attorno all’orto urbano, a prendersi cura dello spazio. L’Electric Ladybug garden ha una storia abbastanza recente. Creato nel 2010, è stato fortemente voluto dalla comunità in quanto il comune aveva individuato quello spazio come destinazione edilizia abitativa vista la carenza di alloggi a New York. Fu grazie all’opera di convincimento dei residenti, che oggi l’Electric Ladybug Garden è un punto di riferimento per la comunità di Harlem, non solo un orto urbano ma anche uno spazio dove festeggiare le ricorrenze o organizzare cinema all’aperto utilizzando un proiettore ed un muro di un palazzo vicino. I community garden oggi a New York svolgono un ruolo di aggregatore sociale anche se, essere inclusivi non è semplice. Esiste il rischio di trasformare questi spazi in una sorta di “club”. Sebbene siano aperti a tutti, non è facile coinvolgere i nuovi arrivati o chi non è un residente storico. Fu proprio per questo motivo che decidemmo di lasciare le social street totalmente aperte, senza barriere all’entrata, inclusive, guidate solo dal buon esempio. Per rendere partecipi i vicini di casa, non bastava dire, «siamo qui se volete», è stato necessario organizzare momenti d’incontro collettivi, cercando di coinvolgete attivamente i vicini, ma anche lavorare sulle relazioni una ad una. Prima di arrivare a prendersi cura di un bene comune nella strada, che poteva essere anche un’aiuola, era importante costruire delle relazioni partendo dall’online e portarle all’offline. Per questo motivo il primo passo di ogni social street prevede la conoscenza diretta tra vicini di casa. Si comincia con scambiarsi un consiglio nel gruppo Facebook della strada, quel consiglio fornito da un’icona su Facebook ha un nome che il giorno seguente puoi incontrare per strada. Inizi a salutare quella persona e ringraziarla non solo on line ma off line, è nata così una relazione. Dove o cosa porterà quella relazione non è importante. È complicato misurare l’impatto che le social street hanno avuto nel corso di questi dieci anni. Possiamo dire che ne sono nate oltre 400, che ne fanno parte oltre 300mila persone nel mondo, che il New York Times l’ha ritenuta un’innovazione sociale degna di nota per il suo approccio disruptive, ma quanto hanno migliorato la vita nelle città? Difficile da dire perché non si può quantificare l’importanza di un’amicizia nata tra vicini di casa. Un orto urbano è qualcosa che si può vedere e toccare, le social street sono quasi tutte intangibili: è uno spazio virtuale che spesso si trasforma in reale. Non esiste un registro di iscritti alle social street, non vengono custoditi dati di nessuno, le social street continuano a svolgere il ruolo di facilitatore di relazioni creando occasioni d’incontro nella vita reale, in un mondo che sembra andare in altra direzione.

In apertura l’Electric Ladybug di New York (foto: Federico Bastiani)


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