Un leader occidentale ha conquistato il mondo “nemico”. Dimostrando che la democrazia è una valore affidabile. E che garantisce quella libertà che i governi arabi neganodi Rassmea Salah
TCome storni di rondini che migrano verso i posti più caldi della Terra, così migliaia di giornalisti di tutto il mondo il 4 novembre scorso sono confluiti in un curioso flusso verso gli States per seguire da vicino il risultato delle elezioni americane. E mentre tutti i fari dei mass media erano rivolti oltreoceano, io avrei voluto essere in Medio Oriente. Anzi, precisamente al Cairo, per seguire in diretta la reazione dei miei coetanei egiziani, per la stragrande maggioranza anti americani “per dogma”, all’elezione del primo presidente nero della storia degli Stati Uniti.
Come poter condividere con loro opinioni, reazioni, gioie o timori? Con internet, naturalmente. L’unico modo in cui i giovani arabi possono – seppur con delle restrizioni dall’alto – esercitare una libertà di espressione che i governi dei loro Paesi non consentono loro.
Mi è parso di rilevare due maggiori filoni di pensiero. Il primo sembrava voler cancellare con un colpo di spugna il tradizionale antiamericanismo che aveva sinora imperato nell’opinione pubblica araba e, preso dall’entusiasmo, mostrava massima solidarietà al nuovo presidente americano, un consenso però basato più su una comunanza di vissuto che sulle linee politiche e strategiche di Obama. Confidavano in lui in nome di una condivisione di elementi: naturalmente enfatizzavano il suo secondo nome Hussein; elogiavano il colore della sua pelle così simile alla loro; sottolineavano la sua esperienza di vita in Indonesia, in un contesto disagiato, povero e soprattutto islamico. Insomma, esprimevano non solo simpatia per il neo presidente, ma vera e propria empatia, fiduciosi del fatto che tutti questi elementi lo avrebbero reso più vicino e simile a loro.
Il secondo approccio alla nuova presidenza, invece, era costituito dal nocciolo duro dell’antiamericanismo arabo che non si era fatto per nulla abbindolare dalle caratteristiche fisiche del presidente. Insomma, nonostante confermasse quegli elementi evidentemente in comune, prestava maggiore attenzione alla politica, soprattutto a quella estera, in relazione proprio al Medio Oriente. Ed a tal proposito esprimeva diffidenza e cautela, ricordando da una parte, la visita di Obama al Muro del pianto per sottolinearne la posizione filoisraeliana e, dall’altra. dubitando delle sue aperture verso l’Iran. In certi casi, questo filone considerava addirittura l’eventuale ritiro delle truppe americane dall’Iraq solo una strategia politica per ingraziarsi l’opinione pubblica mediorientale.
Fra questi due estremi, naturalmente, proliferavano posizioni e approcci diversi fra i giovani arabi. Tuttavia, oltre a reazioni e approcci emotivi pre o post elezioni, credo che quello che oggi accomuni i vari gruppi pro o contro Obama sia l’impatto a lungo termine nella psicologia di massa e nella coscienza giovanile araba. Questa elezione è per tutti i giovani arabi una vera e propria lezione di democrazia, una presa di consapevolezza che essa funziona, che è un sistema di valori che non discrimina, che ti permette di sognare e che ti garantisce quella libertà che i governi arabi continuano a negare. La vittoria di Obama può essere uno stimolo che permetta ai giovani arabi di conquistarsi ciò a cui hanno diritto e di diventare decisori del proprio futuro.
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