Mondo
L’estremismo islamico? Si combatte anche con la pubblicità
La compagnia telefonica Kuwait Zain racconta l’Islam moderato lanciando uno spot di denuncia durissima al terrorismo, con tanto di pop star nazionali e persone sopravvissute agli attentati. Ne abbiamo parlato con Michele Marangi, professore di Tecnologie dell'Istruzione e dell'Apprendimento all’Università Cattolica del Sacro Cuore
Ha fatto il giro del mondo e registrato quasi tre milioni di visualizzazioni, lo spot della compagnia telefonica del Kuwait Zain, lanciato lo scorso weekend con l’inizio del Ramadan, quando gli ascolti televisivi, nei Paesi arabi raggiungono il picco. Una pubblicità che racconta un Islam molto diverso da quello a cui viene dato spazio sui media, e che rappresenta una denuncia durissima all’estremismo. Ne abbiamo parlato con Michele Marangi, professore di Tecnologie dell'Istruzione e dell'Apprendimento all’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Professore, anche la pubblicità può diventare un’arma contro il terrorismo?
In effetti sembra un ossimoro, ma la pubblicità produce gli immaginari e li registra. La cosa interessante di questo spot è che identifica qualcosa che solitamente viene sottostimato, ovvero l’Islam moderato con i sui valori trasversali che, nonostante rappresenta la maggioranza dei credenti, è altamente sottorappresentato. L’altra idea intelligente è che hanno copiato la stessa strategia dei militanti, Daesh ha una enorme capacità comunicativa, lo spot lavora sugli stessi elementi ma usa il segno contrario. Il video infatti fa leva su una parte retorica che sembra desueta, quella dei canti e dei balli che da noi verrebbero definiti “nazional-popolari”, e poi aggiunge un piano di realtà molto curato, con l’utilizzo di immagini iconiche immediatamente riconoscibili, come quella del bimbo di Aleppo ferito che ha fatto il giro del mondo, fino all’inclusione di persone realmente sopravvissute ad attacchi terroristici, indicate con didascalie. L’uso di testimoni e non di testimonial non è per nulla banale. Il risultato è un’operazione narrativa estremamente efficace.
In molti hanno sottolineato il fatto che la pubblicità rischia di semplificare un tema estremamente complesso…
Questo spot è una forma di storytelling contemporaneo, non vuole essere un’analisi politica. La pubblicità non racconta la cronaca ma può dirci molto sulla società. Se non siamo snob, ad esempio, possiamo vedere che le pubblicità della Mulino Bianco, nei decenni, pur presentandoci una realtà stereotipata, ci hanno raccontato come è cambiato l’immaginario degli italiani. In questo caso poi, lo spot non è rivolto ai terroristi ma al pubblico medio, che prende coscienza di un sentire comune.
Nello spot non vi sono telefoni e il nome della compagnia viene citato solamente alla fine. Cosa ci dice questo spot dell’uso della pubblicità fatto dalle aziende?
Si tratta di una strategia comunicativa raffinata. I creatori dello spot sapevano di muoversi su un terreno molto delicato. Spesso negli attentati, le bombe vengono innescate proprio con i cellulari. Anche per questo, nell’intero spot non compare nessun richiamo ai telefoni, pur trattandosi della pubblicità di una compagnia telefonica. Si fanno invece molti riferimenti alla comunicazione, interpretata come espressione di libertà. I disegni colorati che compaiono in alcune parti del video si riferiscono proprio a questo. Questo è uno spot che ha un chiaro risvolto sociale, ma il fine ultimo delle aziende è fare mercato, il che non significa necessariamente vendere dei prodotti, va al di là del semplice consumo, è invece strumentale alla crescita della reputazione di un brand. Lo stesso vale per la scelta di menzionare il marchio solo alla fine. È un modello utilizzato moltissimo. Lo spot è andato virale e anche se si tratta di una compagnia nazionale, il brand è diventato riconoscibile oltre i confini del Paese.
Lo spot è stato lodato da molti, ma ha anche sollevato diverse critiche. In tanti hanno puntualizzato che il piccolo Omran Daqneesh, il bimbo di Aleppo era stato ferito dalle bombe del regime di Assad e non dal terrorismo Jihadista, altri invece si sono chiesti se sia appropriato coinvolgere dei sopravvissuti agli attentati in un’operazione che è comunque pubblicitaria e ha, per tanto, fini commerciali. Qual è il confine tra sensibilizzazione del pubblico e sfruttamento?
In realtà il confine non esiste. Le critiche sono giuste ma fanno parte di un discorso più ampio, su cosa i media possono o non possono mostrare e sul cortocircuito tra simboli e stereotipi. Lo spot però ha un’utilità. Prima di tutto si rivolge, appunto, allo spettatore locale medio. Il cantante è una pop star famosissima nel Paese, è lui che ci mette la faccia, questo stimola un dibattito ed esprime un messaggio preciso. Non è una cosa nuova. Se pensiamo agli spot di Oliviero Toscani per Benetton, il principio era esattamente il medesimo. Le campagne shock, con il malato di Aids e le persone in carcere avevano l'obiettivo di schierarsi e fare prendere una posizione molto precisa a chi decideva poi di acquistare quel marchio. Su certi temi d'altronde non ci si può fermare a metà strada. La cosa interessante è che questa comunicazione poi, va oltre i confini del Kuwait. Si tratta di guardare il Medio Oriente con occhi diversi, per evitare il sillogismo, troppo frequente, tra Islam e terrorismo.
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