Welfare
L’etica made in Thyssen
Morire di lavoro/ Il doppio volto della multinazionale dell'acciaio
di Redazione
Le chiamano le «morti fotocopia». Tutte uguali, quasi mai accidentali, ma quasi meccaniche, come quel lavoro che si ripete identico fino a portarti via. Saltano gli automatismi che bloccano il tubo a fine corsa, fuoriesce l?olio, il fuoco divampa e poi il botto. Ustioni sul 60-70% del corpo, le sirene disperate fino all?ospedale. Il dramma. Il pianto dei familiari. Si stringono intorno pure le telecamere dei media se ci scappa più di un morto. Così è successo a Torino, nello stabilimento in dismissione di ThyssenKrupp, dove uno straordinario è costato la vita a quattro persone. Il 15 novembre nel bresciano, alla Lucchini/Severstal, un decesso alle presse, il secondo nel giro di sei mesi; quest?estate un altro morto all?Ilva di Taranto, la fabbrica spruzza veleni che ha ingoiato in 15 anni la vita di 40 lavoratori.
È la siderurgia, bellezza, sibila qualche industriale, che propone come soluzione il licenziamento dei dipendenti più incauti. Ma è anche l?Italia in via di sviluppo che fa la conta dei morti ogni anno – 1.302 infortuni mortali nel 2006 – senza trovare risposte. Numeri da altro mondo, da Far East della delocalizzazione selvaggia. Come quella che in Romania lascia sul campo 25 lavoratori degli impianti della Mittal/Arcelor, ormai i numeri uno della siderurgia, anche nei necrologi di dipendenti.
In comune i giganti dell?acciaio, oltre al volto rognoso di un business duro ma sempre più ricco per l?alta domanda d?Oriente, hanno una certa allergia per la responsabilità sociale d?impresa. Dopo l?ultima strage consumata a Torino, anche il premier Romano Prodi l?ha evocata. Per ora resta lettera morta.
I panzer dell?etica
L?Italia che è corsa in massa a istituire fondi di solidarietà alle famiglie delle vittime (Unicredit, Fondazione Specchio/La Stampa, Fiom Cgil, Regione Piemonte, Provincia e Comune di Torino), ha sentito un brivido freddo lungo la schiena alla lettura dell?asettico comunicato stampa dei vertici della ThyssenKrupp. Mentre aumentava il numero delle vittime, emozioni ancora sottozero. Cuori d?acciaio. Nessuna presa d?atto di responsabilità o ammissione di errore, neppure una mano tesa ai familiari delle vittime. Eppure dall?alto dei 55 miliardi di giro d?affari, e i 3,3 miliardi utile, Thyssenkrupp – diversamente dai colleghi di Lucchini, Mittal/Arcelor, gruppo Riva – ha abbozzato un piano di Csr.
«Accendere l?entusiasmo dei nostri impiegati è il nostro fine», suona così, terribile e sinistra, la partenza a tutta birra del sustainability commitment della multinazionale che armò Adolf Hitler. Malgrado tutto, però, la vena filantropica è nel dna della proprietà. A controllare la società ci sono due fondazioni: la Fritz Thyssen Stiftung, dedicata alla ricerca scientifica e alla promozione di convegni (venerdì 14 a Jena si parla di etica e ragione); e la Alfred Krupp Von Bohlen Foundation, che sostiene l?università tedesca. Infatti, l?impegno alla Csr è un fiume di iniziative che si allunga tra donazioni a parchi delle idee, si snoda tra borse di studio ed innovazione, e promuove incontri con maître à penser della pace e della filosofia.
Manca però un bilancio sociale, dove l?impresa tenti di mettersi allo specchio, racconti che succede nei suoi stabilimenti fuori dalla Germania. Nel 1873 Alfred Krupp scrisse: «L?obiettivo del lavoro è creare un benessere comune. Solo allora il lavoro diventa una benedizione, una preghiera». Forse quell?ideale si è realizzato in casa, ad Essen, ma oltre la Ruhr le mosse dell?azienda sono poco affini con quella della responsabilità sociale d?impresa. In Canada, dove ha una sede, la Thyssen è finita nel mirino della Procura per un giro poco chiaro di commesse, tra business e politica, per carri armati destinati all?Arabia Saudita. In Brasile, pescatori ed indigeni hanno fatto causa alla multinazionale per devastazione ambientale.
La classe operaia in purgatorio
Savino Pezzotta conosce bene le tute blu. Ha indossato sulla sua pelle quei panni e li ha rappresentati per anni come sindacalista della Cisl. «Purtroppo» non riesce a stupirsi, «ma ad ogni morte sul lavoro lo shock è lo stesso. Anzi è sempre peggio». Dice Pezzotta con l?amarezza delle peggiori occasioni: «C?è una strana divinità che si aggira ai nostri giorni, tempi di economicismo sfrenato e globalizzato. Si chiama competitività e sul suo altare si arriva a sacrificare anche la vita degli uomini. Dobbiamo uscire da questa logica». A Torino i sindacati hanno beccato fischi. Un brutto segno, secondo l?ex leader della Cisl. «Il sindacato non ha il coraggio di separare la questione ?salario? da quella ?sicurezza?. Tutto è salario. Oggi tutto si gioca sui denari. Difficile, poi, parlare di Csr se tutti i protagonisti della società rispondono solo all?economicismo imperante».
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