Mondo

Libia, la notte dei respinti

Ecco cosa accade agli stranieri che vengono rifiutati dall'Italia

di Redazione

Solo i nordafricani rientrano nei Paesi di origine, gli altri clandestini vengono invece rinchiusi in centri di detenzione o in carceri. Da cui si esce pagando Che ne sarà dei circa 500 immigrati riportati a Tripoli dalle motovedette italiane con la nuova politica dei respingimenti? A seconda della loro nazionalità, alcuni saranno rimpatriati rapidamente, in particolare coloro che provengono da Stati del Nordafrica. Altri, ovvero i cittadini dell’Africa subsahariana, saranno rinchiusi nei famigerati centri di detenzione libici o nelle carceri propriamente dette. La grande Jamahiriya usa la detenzione senza limiti di tempo per gli immigrati come prassi consolidata, in una serie di centri sparsi su tutto il territorio nazionale, dall’estremo Sud del deserto fino alle coste della Cirenaica e della Tripolitania. Il loro numero esatto non è noto, ma sarebbero circa una ventina. Tre di questi – Kufrah, Sebha e Ghariyan, vicino Tripoli – sarebbero stati costruiti con fondi italiani. «Sono vere e proprie carceri, in cui non ti viene detto nulla. Sei là e speri di uscire un giorno», racconta Benjamin, un ragazzo etiope che ha trascorso sei mesi in un centro a Misratah prima di essere liberato e riuscire ad imbarcarsi per Lampedusa.
Lo status di queste strutture non è chiaro: alcune sarebbero centri di transito per il rimpatrio, altre veri e propri centri di detenzione, altre ancora centri di smistamento. Nell’estremo Sud-Est, al confine con il Sudan, quello di Kufrah è ricordato con terrore da tutti coloro che ci sono passati. «A Kufrah ti portano con un container. Ti catturano nel Nord e ti rispediscono a Sud, tre giorni in un container con una finestrella», rivela Dagmawi Yimer, che è passato attraverso l’esperienza del viaggio e l’ha raccontato nel film Come un uomo sulla terra, da lui diretto insieme ad Andrea Segre. «A Kufrah non ti mandano per rimpatriarti. Dopo un po’ che sei lì, i poliziotti ti vendono. Io sono stato venduto per 30 dinari (15 euro) a un intermediario, che poi ha voluto 300 dollari per liberarmi a sua volta e portarmi a Nord».
Questo mercato è prassi consolidata nella remota oasi di frontiera, così come questo gioco dell’oca che vede gli immigrati rispediti da Nord a Sud per estorcere loro altri soldi. «Io ci sono passato solo due volte. Ma conosco gente che è stata rispedita a Kufrah anche sette volte», conclude Dagmawi.
Quando il ministro dell’Interno Roberto Maroni risponde alle legittime preoccupazioni dell’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, sui potenziali richiedenti asilo rispediti indietro sostenendo che la Libia si occuperà di esaminare le loro eventuali domande perché a Tripoli ci sono varie organizzazioni internazionali, dice un’inesattezza. In Libia c’è un ufficio dell’Unhcr – e anche uno dell’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, che peraltro si occupa di rimpatri assistiti – ma nessuno dei due è ufficialmente riconosciuto. C’è un ufficio del Cir, il Consiglio italiano per i rifugiati, ma ha aperto da pochissimo. Tutte queste organizzazioni sono tollerate e operano grazie all’intermediazione di alcune ong libiche create da Seif el Islam, il figlio riformatore di Gheddafi, peraltro recentemente caduto in disgrazia con i papaveri del regime. Tutte queste organizzazioni non hanno accesso ai centri, non hanno possibilità di esaminare eventuali richieste d’asilo, che la Libia non accetta perché non ha firmato la Convenzione di Ginevra del 1951. Nel 2008, il 70% delle persone sbarcate a Lampedusa ha fatto richiesta d’asilo. Il 50% di loro ha ottenuto una qualche forma di protezione. Sono queste le persone che stiamo rimandando in Libia, nei container diretti a Kufrah o nel carcere di Misratah, dove «sai quando entri ma non sai quando esci».

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