Economia

L’impatto che manca alla finanza impact

Il 2020 si è distinto per l’impennata della finanza sostenibile raggiungendo secondo Morningstar oltre 800 miliardi di euro soltanto sul mercato europeo. Ma tali risorse mancano ancora un adeguato livello d’integrità rispetto all’impatto sociale, esercitando quindi una scarsa influenza sulla riconversione dell’industria finanziaria. Ecco come invertire la rotta

di Francesco Abbà, Flaviano Zandonai e Filippo Addarii

Sostenibilità ambientale e giustizia sociale. È dal rapporto tra queste due sfide che scaturisce “la missione delle missioni” che caratterizza questa fase storica. Una necessità dettata dallo scenario, ma anche uno stimolo a superare i limiti di strategie settoriali che in campo ambientale introducono logiche di estrazione del valore nell’economia green, mentre nel campo delle politiche sociali ripropongono modelli di protezione sociale basati su trasferimenti economici che rischiano di limitare i percorsi di empowerment di persone e comunità generando trappole assistenzialistiche.

In questo quadro il contributo del settore privato può essere rilevante, anche se fin qui il suo impatto sociale e ambientale non si è espresso pienamente a livello sistemico. La sostenibilità, infatti, viene declinata come area strettamente di business (quindi più strutturata ma anche delimitata dal punto di vista settoriale e dei modelli di management) mentre inclusione e coesione sociale sono materie spesso collocate a livello di responsabilità sociale d’impresa e quindi in posizione marginale nella catena del valore. È necessario quindi sollecitare i soggetti privati affinché contribuiscano alla missione di sostenibilità e giustizia sociale svolgendo un ruolo più rilevante, non sfuggendo al loro dovere di riforma (interna e del sistema nel suo complesso). Ciò significa abbandonare un approccio di delega riparativa delle proprie esternalità negative assegnato ai settori del pubblico e del nonprofit favorendo invece la formazione di un mercato competitivo nella creazione di valore sociale.

La finanza a impatto, da questo punto di vista, non sembra ancora in grado di esercitare quell’azione trasformativa rispetto al settore privato che pure la connota. Sul versante della raccolta cresce infatti l’ammontare di risorse. Il 2020 si è distinto per l’impennata della finanza sostenibile raggiungendo secondo Morningstar oltre 800 miliardi di euro soltanto sul mercato europeo. Ma tali risorse mancano ancora un adeguato livello d’integrità rispetto all’impatto sociale, esercitando quindi una scarsa influenza sulla riconversione, necessaria, dell’industria finanziaria nel suo complesso ed esponendo così l’impact investing al rischio di un utilizzo blando se non addirittura opportunistico. Anche per quanto riguarda la capacità d’impiego la finanza a impatto vive, almeno nel contesto italiano, un paradosso caratterizzato da piccoli investimenti su grandi sfide sociali. Questo perché i fondi sono ancora di piccole dimensioni in termini di dotazione economica e di competenze da destinare ad attività di scounting, accompagnamento, valutazione, con un impiego irrisorio delle risorse tecnologiche, ma anche perché le imprese in cui si concentrano gli investimenti sono solitamente anch’esse di piccole dimensioni. Un’industry quasi “di testimonianza” più che orientata a un vero e proprio cambio di paradigma.

Le sfide poste dal contesto pandemico generano una sorta di ribaltamento della logica d’investimento. Nell’era precedente alla comparsa del virus, infatti, i fondi a impatto hanno privilegiato un approccio selettivo cercando le imprese migliori in termini di attesa di rendimento economico e sociale e investendo su innovazioni di prodotto e di processo volte più a completare un’offerta esistente piuttosto che a definirne una radicalmente nuova. Nella fase attuale, invece, il sistema degli investimenti, anche impact-oriented, vive in una situazione di stasi a causa di misure di politica economica che con l’intento di salvaguardare l’esistente hanno “cristallizzato” molte attività, ad esempio sospendendo il rimborso dei prestiti. Questa situazione, comprensibile nelle sue ragioni di fondo ma solo se di breve periodo, può generare difficoltà contingenti nell’impiego delle risorse impact, ma soprattutto può creare l’illusione che la “nuova normalità” corrisponda a questo stato di cose rendendo sempre più difficile distinguere, anche in campo sociale, imprese con potenziale di sviluppo nel nuovo scenario rispetto a una platea, probabilmente sempre più vasta, di imprese in difficoltà o già compromesse (cosiddette “zombie”) che sopravvivono cioè finché permane questo stato di sospensione.

A fronte di questa evoluzione di medio periodo e degli effetti del break pandemico si possono individuare alcuni passaggi chiave per la finanza d’impatto caratterizzati da un comune denominatore ovvero una maggiore integrazione all’interno di un ecosistema di risorse economiche e di capacità di accompagnamento al quale può appoggiarsi e che, al tempo stesso, può contribuire ad arricchire.

  • Il primo passaggio consiste nel modificare le modalità di scouting e di capacity building delle imprese a finalità sociale al fine di sollecitare una nuova mentalità d’impatto nel contesto pandemico, contribuendo in particolare, vista la propensione al rischio di queste risorse, alla riconfigurazione delle priorità d’investimento, individuandone di nuove ma segnalando anche quelle obsolete affinché altri attori possano mettere in atto le necessarie azioni di “recovery” ad esempio rispetto all’occupazione.
  • Il secondo passaggio consiste nel rivolgere gli investimenti a impatto non tanto per saturare nicchie settoriali ma soprattutto per il rilancio di soggetti e segmenti “core” d’impresa, puntando quindi sulle qualità organizzative e di governance delle imprese a impatto sociale in modo che possano operare all’interno di contesti che, a differenza del recente passato, sono e saranno caratterizzati da accentuate discontinuità anche di medio periodo.
  • Il terzo passaggio richiede d’incrementare la taglia degli investimenti grazie a una migliore comprensione dei mercati e delle filiere e di come prendono forma nella dimensione locale rafforzando la sinergia con altri attori della finanza e delle politiche di sviluppo. In questo modo l’impatto dell’impact investing corrisponde di fatto alla sua capacità di leva operando, ad esempio, in fondi di fondi e bond territoriali e potrebbe cosi’, finalmente, venire incontro alle esigenze di tutto il tessuto produttivo accompagnando nella transizione anche aziende ancora estranee alla creazione di valori, non soltanto di valore.
  • Infine appare necessario agire all’interno della sfera pubblica non solo per ottenere quote di cofinanziamento dei fondi, ma anche, più in profondità, come agente di trasformazione della spesa pubblica da trasferimento a investimento, rilanciando, ad esempio, modelli di Social Outcome Contract e payment by result – piu’ comunemente definiti Social Impact Bond – che premiamo i risultati ottenuti e il conseguente risparmio di spesa pubblica.

L’insieme di queste sollecitazioni rappresenta una chiamata all’azione per l’Italia e in particolare per il nuovo governo riprendendo alcuni temi di politica nazionale ed europea, ma non solo. Nel corso del 2021, infatti, l’Italia assumerà la presidenza del G20 e la co-presidenza di COP26 sul clima. Si tratta di appuntamenti cruciali dove poter giocare un ruolo di leadership su scala planetaria e da utilizzare per orientare asset class finanziarie e aree di business sociale ormai mature affinché aderiscano alla missione delle missioni rappresentata da giustizia sociale e sostenibilità ambientale. Ciò significa, operativamente, agire a diversi livelli.

  1. Un primo ambito consiste nel migliorare l’integrità degli standard che certificano l’orientamento delle risorse, ad esempio prevedendo un upgrade dei criteri ESG (Environment, Social and Governance) per fare in modo che la raccolta di fondi ormai a livelli record sia davvero “curvata” a obiettivi di transizione green e inclusione sociale. Inoltre serve una chiara distinzione tra i criteri ESG che definiscono la finanza che allinea le proprie operazioni con parametri non finanziari, rispetto alla finanza d’impatto che, diversamente, persegue la creazione di valore non finanziario. Una distinzione che può apparire sottile, ma che è invece sostanziale. Sul versante dell’impatto sociale è necessaria un’iniziativa più coordinata rispetto alla misurazione e valorizzazione dei dati perché oggi il quadro valutativo appare eccessivamente frammentato e quindi non in grado di restituire quell’aspirazione al cambiamento che anima un numero crescente di iniziative lungo l’asse profit e nonprofit impedendo così di completare “l’ultimo miglio” rappresentato dalla riscrittura delle regole del gioco a livello di policy making. Questo richiede, tra l’altro, di meglio dispiegare il potenziale della rivoluzione digitale per rendere quantificabile e operativa la complessità della dimensione valoriale dell’attività economica.
  2. Un ulteriore ambito richiede di stimolare nuove forme di dialogo sociale tra le rappresentanze dell’economia con il settore pubblico e le diverse espressioni della società civile in modo da favorire un’autentica “assunzione di responsabilità” da parte dell’economia capitalistica nei confronti delle sfide sociali di quest’epoca, senza la quale è difficile immaginare che possano essere affrontate e risolte. Questa è la base per una vera e propria partnership multistakeholder per la ripresa e la transizione dando così gambe ai piani che i diversi paesi europei stanno costruendo.
  3. Sul fronte più strettamente finanziario appare invece necessario accorciare le distanze tra finanza a impatto e investimenti delle imprese affinché queste ultime possano uscire realmente trasformate dalla crisi; si tratta di sbloccare un fabbisogno di sviluppo, in realtà ancora molto latente nei piani aziendali, stimato in 175 miliardi (The Association for Financial Markets in Europe – AFME) e che è in buona parte da allineare rispetto alla natura impact delle priorità attuali (transizione green, digitale, inclusione). In questo senso si dovrebbero premiare in maniera più decisa con sgravi fiscali le scelte di trasformazione organizzativa che “stabilizzano” l’orientamento sociale delle imprese (impresa sociale, società benefit, ecc.), rendendole più “competitive” in senso giuridico-organizzativo rispetto a investitori a impatto sociale e contribuendo così a mutare le misure di ristoro di tipo erogativo in nuove politiche industriali che riconoscono nella dimensione sociale un elemento portante al pari dell’innovazione tecnologica. Tali incentivi potrebbero contribuire anche a contenere le attese di rendimento e di plusvalenza in caso di exit da parte degli investitori. Tali attese appaiono oggi mediamente elevate considerando le caratteristiche dei soggetti investiti e il contesto di mercato attuale e quindi si potrebbero remunerare anche attraverso detrazioni fiscali sull’apporto di capitale come proposto in una misura della riforma del terzo settore colpevolmente inattuata.
  4. Infine appare necessario riscrivere il recovery plan nella parte relativa al cofinanziamento da parte dei soggetti privati, prevedendo che questi ultimi possano operare al fine di trasformare la spesa pubblica in investimento sociale non limitandosi quindi a coprogettare per redistribuire risorse limitate volte a gestire l’esistente. Un passaggio, quest’ultimo, che potrà realizzarsi grazie a una Pubblica Amministrazione più competente e autorevole nel gestire questi processi e a un settore finanziario e soprattutto di business sociale in grado non solo di sperimentare ma di scalare questi nuovi modelli di welfare.

*Cgm Finance

**PlusValue

***Gruppo cooperativo Cgm

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