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L’incivile olanda e la lezione dei nostri stadi

Io,giornalista e disabile, non avrei mai accettato di farmi issare a spalla. C'è un limite oltre il quale la dignità umana non può essere calpestata.

di Redazione

Immaginiamo per un attimo le sensazioni che può aver provato uno dei 140 disabili protagonisti della disavventura prima all’aeroporto e poi allo stadio di Rotterdam, mentre, issato a peso morto sulle spalle di un volontario, deve lasciare la propria carrozzina ai piedi di una lunga e ripida gradinata, solcare la folla in un tumulto assordante, ascoltando le grida dei giornalisti e degli operatori Rai aggrediti e malmenati dagli agenti. Paura, stupore, incredulità, umiliazione. Io, giornalista e disabile, non avrei mai accettato di farmi issare a spalla. C’è un limite oltre il quale la dignità umana non può essere calpestata. Anche se in questo caso ogni limite è stato superato, con brutalità e arroganza insospettabili in un Paese come l’Olanda, fino a ieri ritenuto oasi di civiltà, quasi un simbolo dell’Europa dei popoli e non dei nazionalismi. La notizia rimbalzata faticosamente dai teleschermi è stata di inaudita violenza morale. Dobbiamo ringraziare quei disabili, e l’ottimismo dell’associazione che li aveva portati fin lì, l’Unitalsi, abituata alla collaudata quiete mistica di Lourdes, e probabilmente poco avvezza a incontrare un servizio d’ordine nato per tenere a bada gli hooligans. Il loro sacrificio è riuscito a sfatare due luoghi comuni duri a morire. Il primo, il più evidente: si pensa che all’estero, specie nei Paesi del Nord, tutto sia perfetto, le barriere architettoniche non esistano, i disabili siano cittadini con pari opportunità, se non addirittura privilegiati. E allora diciamo pure che, al confronto dello stadio di Rotterdam, i nostri campi di calcio sono un esempio di accessibilità.È una lezione dura ma vera. L’Italia non è affatto il fanalino di coda dell’Europa, da questo punto di vista, e soprattutto, nel nostro Paese, salvo rare eccezioni, anche in presenza d’ostacoli fisici insormontabili, subentra sempre un briciolo di umanità, di solidarietà e di aiuto. Il secondo luogo comune è quello che fa ritenere la vera e totale libertà d’informazione un privilegio e un patrimonio tipico delle democrazie nordeuropee. E invece accade che giornalisti e operatori televisivi regolarmente accreditati e nel pieno del loro lavoro vengano sequestrati, picchiati, intimiditi solo perché stanno facendo il proprio dovere. Ma è quasi ancora più grave e sorprendente che le televisioni olandesi – stando a quanto dichiarato in studio dai giornalisti della Rai – non abbiano voluto (o potuto?) trasmettere le immagini che documentavano i gravi fatti di Rotterdam. Autocensura? Nazionalismo? Rivalsa nei confronti degli italiani colpevoli di aver eliminato l’Olanda ai calci di rigore? Se la medesima cosa fosse avvenuta in Serbia o in Iraq, che cosa avremmo detto? Ma siccome siamo in Olanda, la nostra indignazione nasce e muore sul portone dell’ambasciata. Non ci basta. Non ci accontentiamo delle scuse, che tra l’altro non sono ancora avvenute, al momento in cui andiamo in macchina. Non è questa l’Europa che vorremmo abitare da cittadini liberi. C’è un filo rosso che lega la vicenda ignobile di Rotterdam alla tragedia dello stadio Heysel. Non a caso quando la nostra federazione calcistica ha voluto ricordare i morti di quella tragica finale di Coppa dei Campioni, le autorità belghe hanno fatto di tutto per ridimensionare il gesto, per narcotizzare la memoria, trasmettendo addirittura musica rock dagli altoparlanti. Non a caso, in entrambe le situazioni si sono verificate le coincidenti inadempienze di strutture e di servizio d’ordine, un cocktail micidiale che fortunatamente questa volta non si è trasformato in tragedia. Forse perché i volontari dell’Unitalsi hanno buona familiarità con il mondo dei miracoli. Ma l’Europa che vogliamo non è una questione di fede, bensì di diritti e di civiltà. Franco Bomprezzi (presidente Uildm, Unione italiana lotta alla distrofia muscolare)


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