Formazione
L’Umbria del Duemila? 9100 vite in scatola
Era stata promessa una casa per tutti: oggi soltanto 28 famiglie ne hanno una, nessun cantiere è stato chiuso e neppure un'abitazione costruita.
Tra le tante cose che dovevano succedere nel leggendario Duemila, data buona per tutti i sogni, c’era anche il ritorno dei terremotati dell’Umbria nelle loro case. Più di una promessa, la stessa forza di tirare avanti per le 23 mila persone costrette ad abbandonare le loro case dopo il 26 settembre 1997. Ma oggi, che il Duemila è lontano appena 90 giorni, non ci crede più nessuno. Non ci credono a Nocera Umbra, il Comune più disastrato con l’80% delle case distrutte e l’84% degli abitanti sfollati, dove anche il sindaco ha l’ufficio in un container e il consiglio comunale si riunisce sotto un pallone di plastica; non ci credono a Verchiano, dove le case sono ancora tutte giù e solo per alcune è cominciato lo smaltimento delle macerie; e sotto i proclami non ci credono nemmeno a Perugia, negli uffici del Commissario straordinario Bracalente, che mentre scimmiotta sui giornali la fiducia di Prodi (ma al ribasso: «solo 400 famiglie nei container il prossimo inverno») scrive in un documento riservato che la ricostruzione pesante avrà «tempi lunghi».
Le strade perennemente transennate (lavori di consolidamento, recitano i cartelli) che collegano i 53 comuni umbri terremotati, da Foligno a Nocera a Colfiorito, sono zeppe di camion che fanno su e giù carichi di ghiaia, malta e operai. Ma i lavori già partiti riguardano i danni che non superano i 60 milioni: la ricostruzione vera, quella che dovrà rimettere in piedi le 650 case rase al suolo e le altre 22 mila totalmente inagibili, è ancora un miraggio. Un unico cantiere aperto (a Gualdo Tadino), una trentina di famiglie che non imprecano quando vedono il faccione di Prodi in tv. E la rabbia degli sfollati cresce ogni volta che capitano ad Assisi, la città-vetrina baciata dai fondi del Giubileo la cui basilica che crollò in diretta Tv verrà riaperta più bella che mai l’8 dicembre, o passeggiano davanti alla cattedrale di Foligno, su cui si sono riversati 18 miliardi di fondi pubblici e privati per restituirla alla città a tempo di record.
Angela, da due anni in giardino
Il silenzio che avvolge la vera situazione dei terremotati è spesso come il pelo sullo stomaco di amministratori e mass media che, avviata la pratica ricostruzione con le leggi, aspettano che prima o poi arrivi a conclusione. L’80% dei cantieri aperti per la ricostruzione leggera riempie la bocca, ma i fatti raccontano che solo 28 famiglie hanno fatto ritorno alle loro case. Dopo due anni. E dopo due anni Bracalente ha candidamente annunciato di non aver ancora speso quasi 9 miliardi dei 14,7 del suo fondo speciale di Commissario, a cui sono affluite le offerte private di migliaia di cittadini.
Cupacci è un mucchietto di case sopra Capodacqua di Foligno. Ma nelle storie dei suoi nove abitanti si riassumono le difficoltà di una ripresa che non c’è. La signora Angela Papa, 75 anni, ha la casa inagibile: crepe profondissime hanno stortato i muri, dal camino sono crollate in cucina le tegole del tetto. Adesso vive in giardino in un container dono di volontari veneti, il progetto per rifare casa è in Comune, ma lei non si ricorda se l’hanno già approvato o no. «Mi hanno detto che si va per le lunghe», sospira. I suoi vicini, un’anziana coppia di contadini, hanno cominciato a riparare la casa, che non aveva lesioni gravi. I lavori però sono fermi: gli operai, reclutati al Sud da una ditta di Foligno, non sono ancora tornati dalle ferie. Intanto, loro vivono nel capanno degli attrezzi agricoli. L’unico che tra poco rientrerà è un carpentiere, che si è aggiustato la casa da solo.
Baracche da 300 mila al mese
In Umbria le grandi piazzole con i lampioni alti e i tetti di lamiera fanno ormai parte del paesaggio, ma quel che è più grave fanno parte della vita di 9.100 persone, del loro modo di pensare al futuro, a una vita inscatolata. «Nei campi c’è rassegnazione», osserva don Luigi Bonollo, parroco della semicrollata chiesa di S. Maria Assunta di Pieve Fanorica, 3200 anime di cui 1000 in container. «All’angoscia dei primi mesi si è sostituita una calma agghiacciante, che dà i brividi. D’altra parte se uno ha solo una scatola, si affeziona anche a quella». E allora capita di girare per campi – come quello dei Cappuccini a Foligno – che assomigliano a favelas, con verande di legno posticce, tetti di plexiglass a coprire gli spazi tra un container e l’altro, vasi di fiori e tende parasole. Immagini della rinuncia a una condizione provvisoria, tentativi di abitudine. «Il rischio è la passività», conferma Alfonso Raus del Movimento federativo democratico, incaricato dal comune di Foligno di svolgere una ricerca sociologica sugli abitanti dei campi. «Pensare cioè che tutto andrà bene per fatalismo, perché così dev’essere. Ma senza crederci fino in fondo, senza saper dire “quando” né “come”. Siamo alla situazione per cui la speranza è l’ultima a morire, ma è vera speranza, questa?».
Nei campi si vive male, malissimo. E a volte si muore: a Nocera nei due inverni dopo il terremoto la mortalità degli anziani è aumentata del 10%. Nonostante le tariffe sociali, poi, vivere in container – in cui tutto, dall’acqua calda ai fornelli al riscaldamento, è alimentato a corrente – costa mediamente 300 mila lire al mese di bollette Enel. Quasi un affitto. Accanto agli anziani sono rimasti i volontari di alcune organizzazioni, l’Auser e lo Spi Cgil, fortemente radicate tra i cittadini. Vittorio Casini, Pietro Mercuri e Pietro Clementi, tre giovani pensionati delle Ferrovie, sono l’anima di un centinaio di volontari che ogni settimana fanno il giro dei campi a raccogliere le necessità degli anziani, a organizzare cene e feste, a scarrozzarli con i pulmini su e giù dalla montagna in città. «Il ritornello degli anziani è sempre lo stesso: non lasciateci soli», spiega Casini, che vive anche lui in un container al campo Belfiore.
Quanti miliardi per ricominciare?
Ma quando si avvererà la promessa di tornare a casa? L’Umbria, da sola, non sa rispondere. Le forze dell’industria edile della regione mediamente fanno fronte a lavori per 1000 miliardi l’anno. Anche stando alle stime di Bracalente (15 mila miliardi per ricostruire tutto, dalle case alle chiese, dalle scuole agli alberghi agli acquedotti), ci vorrebbero 15 anni. Ma se si dà retta alle stime dell’associazionismo, la cifra lievita a 30 mila miliardi, sforando il primo quarto del prossimo secolo. La soluzione sembrerebbe a portata di mano: richiamare in Umbria ditte di costruzioni da ogni parte d’Italia. Ma non è così semplice, e lo si è visto nell’assegnazione dei progetti agli studi tecnici. Nonostante un bando regionale abbia individuato 220 studi professionali di tutta Italia con i requisiti giusti per ricostruire, gli studi umbri detengono il 96% delle commesse. Una vera autarchia edilizia. Così capita che alcuni professionisti abbiano decine di lavori e altri uno, con gli immaginabili imbuti.
Le cifre del resto invitano allo scetticismo: cantieri chiusi, zero. «I tecnici sono pochi, è vero, e questo provoca un rallentamento nell’apertura dei cantieri», ammette l’ingegner Luciano Tortoioli, dirigente dell’ufficio regionale che si occupa di ricostruzione. «D’altra parte la scelta del professionista spetta al cittadino, ed è logico che preferisca servirsi di studi vicini e conosciuti. Insomma non possiamo farci niente». Anche la costituzione dei consorzi obbligatori per il recupero dei centri storici ha subito ritardi: dovevano essere pronti a gennaio, ne mancano ancora molti. Così la prevista scadenza del 30 settembre per la consegna di tutti i progetti di ricostruzione – sì, perché non tutti sono ancora pronti – slitterà di nuovo fino al 31 dicembre.
In ballo non ci sono solo i fondi statali, ma anche quelli europei (oltre 1100 miliardi), che dovranno essere impiegati per forza entro la fine dell’anno. Ma anche qui si moltiplicano i dubbi. Mille, tremila, cinquemila miliardi sembrano tanti, ma basteranno? «No, non bastano», accusa Giocondo Leonardi, direttore della Caritas di Assisi. «Stiamo già raccogliendo le denunce dei cittadini che dopo aver presentato un regolare progetto, approvato dal Comune, si vedono finanziare metà della cifra necessaria a ricostruire la casa. E poi contesto la scelta di cominciare a riparare le case poco danneggiate: così chi ha perso tutto aspetterà anni, mentre chi aveva una crepa in un muro sta per tornare a casa». Lo sa bene il signor Edoardo C., di Assisi, impiegato comunale e anche per questo tra i primi della città a depositare un piano completo per la ricostruzione della palazzina a due piani dove viveva con la moglie, due figli universitari e la suocera. Per rimetterla a posto ci vogliono 900 milioni, lo Stato gliene finanzia 500. Per gli altri 400 ha già bussato in banca. In garanzia per il mutuo, gli hanno chiesto la casa. Lui ha obiettato: «Ma è crollata». E la banca: «Non si preoccupi, per noi va benissimo com’è».
Duemila
«Nel Duemila tutti a casa» aveva annunciato col suo solito sorriso il presidente Prodi ad Annifo, nel gennaio ’98, durante la visita del Papa in Umbria. Una promessa ribadita a più riprese dal presidente della Giunta regionale umbra e Commissario straordinario per il terremoto, Bruno Bracalente, che lo scorso luglio ha ripetuto in Consiglio regionale: «il 2000 sarà la data decisiva per ridare un’abitazione stabile a chi vive nei prefabbricati».
Ventotto
Questa la cifra ufficiale delle famiglie rientrate (pubblicata in un documento interno della Regione Umbria lo scorso 9 agosto) grazie alla conclusione dei lavori della ricostruzione leggera (ex ordinanza 61). Il Comune che ha fatto maggior ricorso a questa misura è Foligno, con 1470 domande presentate, seguito da Gualdo Tadino (534), Assisi (383), Spoleto (305), Nocera Umbra (233). A Nocera la situazione è però molto più grave perché si tratta di un comune di soli 6000 abitanti contro i 50 mila di Foligno.
Novemilacento
Ancora Nocera guida la classifica dei container: nel territorio comunale, che comprende 40 frazioni per lo più di montagna,
ne sono stati piazzati 1036 in cui vivono 2528 persone; a Foligno
i container sono 1416 per 3361 persone. Il Comune di Foligno ha deciso recentemente di ordinare 200 casette prefabbricate di legno sul modello tirolese (spesa prevista: 2 miliardi) che verranno consegnate ai cosiddetti “terremotati di lunga durata”, quelli cioè che rientreranno in casa tra alcuni anni. La maggiore concentrazione è prevista
a Verchiano, frazione di montagna quasi completamente distrutta.
Zero
Il “modello umbro” di ricostruzione è piuttosto centralizzato. La necessità di non lasciare mano libera ai Comuni o ai privati come in Friuli, spiegano alla Regione, è dovuta ai molti edifici danneggiati a carattere storico o artistico. Base di questo modello sono i Pir (Programmi integrati di recupero), che comprendono i centri storici e gli edifici non isolati. A gestire la ricostruzione dei 184 Pir sono chiamati i consorzi (finora 600), formati da almeno il 51% dei proprietari delle “Umi” (unità minime di intervento). Un procedimento complesso che rallenta la ricostruzione nei Pir.
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