Mondo

Madri di guerra

Abbiamo chiesto a tre organizzazioni umanitarie, Avsi, WeWorld e Amref, chi sono le mamme che incontrano nei Paesi dove lavorano tra guerre, povertà e disastri ambientali. Dall’Africa al Medio Oriente fino all’Ucraina. Per i loro figli vogliono quello che desiderano tutte le madri: il meglio. E anche se i contesti di partenza sono drammatici l’immagine che ci hanno restituito di queste mamme è una fotografia piena di forza

di Anna Spena

Natalia ha 40 anni. L’abbiamo incontrata a marzo del 2002. Pochi giorni dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Teneva in braccio Anastasia, che allora aveva due mesi e mezzo, e poi con loro c’era Johor che oggi ha dieci anni. Arrivano da Kyïv «non so dove voglio andare, non so cosa voglio fare. Mio marito è rimasto a combattere, mi chiama e mi dice che sparano tutti i giorni. Dove vado? Dove andiamo?», aveva raccontato. Tamara invece di anni ne aveva 69 anni, era scappata da Charkiv e pensava solo ad una cosa: «i miei figli non sono voluti venire via. Mi hanno messo su un treno e sono arrivata qua. A Charkiv cadono le bombe dal cielo». Natalia e Tamara le avevamo conosciute in un centro per rifugiati di Leopoli, nell’ovest dell’Ucraina. La città che all’inizio della guerra è diventata un centro di accoglienza e volontariato a cielo aperto. Poco più di 700mila abitanti che oggi, invece, superano il milione perché oggi ci vivono anche tanti sfollati interni. Ma quante sono nel mondo le Natalia e le Tamara che crescono i figli o sono state costrette a lasciare i loro perché vivono in un contesto dove essere madri non è né facile, né scontato? Abbiamo chiesto ad alcune organizzazioni non governative che lavorano nei Paesi fragili, complessi, delicati come e chi sono le donne e le madri che incontrano ogni giorno. Quella che ci hanno restituito è una fotografia piena di forza.

Mamme, agenti segreti

«Tutte le mamme che abbiamo incontrato con WeWorld in Africa, o in Medio Oriente o non per ultimo in Ucraina», racconta Dina Taddia, consigliera delegata e direttrice generale dell’organizzazione, «hanno un solo obiettivo: salvare i loro figli, a qualunque costo. Si trasformano in “agenti segreti”, capiscono come si muove la guerra e sanno quando è il momento di scappare, ma anche qual è quello per restare ancora. Dico restare ancora perché le madri sanno che sradicare un bambino dalla sua casa, da un luogo che conosce, per quel figlio è un trauma». In Ucraina dall’inizio del conflitto si stimano 17.7 milioni di persone con bisogno di assistenza umanitaria e protezione (dati Unhcr aggiornati a novembre 2022). Qui WeWorld ha sedi operative a Lviv, Kyiv, Kharkiv e Izmail. L’organizzazione è attiva anche in Moldavia, dove accoglie le persone che decidono di lasciare l’Ucraina e in Italia. «Sono da poco tornata dall’Ucraina», racconta Taddia. «Qui abbiamo sviluppato diversi progetti con le mamme in fuga dall’est del Paese, dalle zone più bombardate. In modo particolare abbiamo aperto spazi per i loro figli, dove forniamo anche assistenza psicologica. Perché insieme alle bombe, le mamme in guerra hanno anche un’altra enorme paura: che il conflitto levi opportunità al futuro dei loro bambini, la quotidianità, la routine. Sia in Ucraina che in Moldavia ospitiamo mamme e bambini. A volte più mamme condividono una stanza. È incredibile vedere come quel pezzo di spazio diventi il loro spazio e riproduca la casa che sono state costrette a lasciare. Riempiono i muri, sistemano i pochi oggetti che sono riuscite a portare via con loro. Vogliono che i figli possano sentirsi sicuri in un ambiente sereno e non estraneo».

Siria, i nostri figli hanno visto solo guerra e distruzione

Lo scorso 15 marzo la Siria è entrata nel tredicesimo anno di guerra. Qui prima del disastroso terremoto che ha coinvolto la regione a Nord del Paese al confine con la Turchia, 15 milioni di persone avevano già bisogno di assistenza umanitaria, a loro ora si sono aggiunti altri 4 milioni. 12,4 milioni di persone sono in condizione di grave insicurezza alimentare; 13 milioni non hanno sufficiente accesso all’acqua; 2,5 milioni di bambini non frequentano la scuola; 6,7 milioni di sfollati interni e 6,6 milioni di rifugiati nel mondo. «Essere madri in Siria è complicato», racconta Aldo Gianfrate, communication officer di Fondazione Avsi. «Bisognerebbe sempre ricordarsi questa cosa: i bambini siriani di oggi, i preadolescenti, sono minori che nella loro vita hanno visto solo una cosa: la guerra. I giovani adulti, che invece non sono nati in guerra, con la guerra sono cresciuti. Le mamme siriane crescono figli che non sanno cosa sia la normalità. Anche oggi che la guerra in Siria oggi ha allentato la sua intensità e si concentra solo in certe zone del Paese la situazione non ha fatto altro che peggiorare negli ultimi due anni». Le famiglie siriane le portano avanti la mamma, molti padri sono morti in guerra, tanti altri rinchiusi nelle prigioni di Assad: «Fanno più lavori insieme per crescere i figli», spiega Gianfrate. «Ma non c’è la necessità di rispondere solo a un bisogno materiale. I figli di queste donne hanno problemi psicosociali». Avsi è presente in Siria dal 2015, a Damasco ed Aleppo con attività di sostegno alle donne, ai bambini e ai malati. «Dopo il terremoto», continua Gianfrate, «le condizioni sono drammaticamente peggiorate. Distribuiamo aiuti e facciamo sostegno psicosociale. Le madri hanno dovuto imparare a spiegare la guerra ai loro bambini e ora stanno imparando a spiegare il terremoto. Ma non è facile, anche loro hanno paura: nell’ultimo viaggio ho incontrato una mamma che ha partorito il giorno del terremoto, e ora ha paura». Ma fanno anche questo le mamme in Siria: hanno paura e l’affrontano per i figli.

Le mamme africane mandano avanti le comunità

Ci sono tante guerre, e ogni guerra ha la sua faccia. Quelle tra Stati, quelle civili, quelle dettate dalla fame e dal cambiamento climatico. In Africa non c’è un Paese che non subisca almeno una delle tre condizioni. «Le donne, le madri, in Africa sono la colonna portante della società. Si fanno carico della cura del benessere di tutta la comunità, non solo dei loro figli», dice Paola Crestani, presidente – Amref Health Africa – Italia. «La maggior parte di loro vive in una società patriarcale che le penalizza. Ma sono guerriere, e vanno avanti. Essere donna e madre in Africa troppo spesso significa essere esposta ad una vita di sofferenza. Qui si dice “è più pericolo essere una donna che un soldato in Africa”. Tante muoiono per mettere al mondo i figli. Come troppi sono i figli che muoiono bambini».

Crestani ha visitato moltissimi Paesi dell’Africa: «Per i loro figli», spiega, «ma soprattutto per le loro figlie, desiderano una sola cosa, la desiderano ardentemente: un futuro migliore. Che significa: andare a scuola, non essere più sottoposte alla mutilazione genitale per le bambine, non essere costrette a matrimoni precoci». E proprio in occasione della festa della mamma le due attrici Caterina Murino e Carolina Benvenga hanno scelto di sostenere l’iniziativa dell’ong per regalare alle mamme Ugandesi il Kokono (Ideato da De-Lab – società benefit e BCorp certificata – interamente prodotto in Uganda). Una culla. «Kokono significa “zucca vuota”», spiega Crestani, è realizzata per proteggere i bambini dagli urti accidentali e dai morsi degli animali. Nel Paese ogni 40 neonati su 1000 non arrivano a compiere un anno di vita, e che ogni 75 secondi un bambino muore di malaria. a causa dell'estrema povertà i bambini sono costretti a trascorrere la maggior parte del loro tempo distesi per terra, in condizioni igienico-sanitarie terribili, esposti al rischio di incidenti domestici. È un oggetto che le mamme possono utilizzare per i loro piccoli: ha una zanzariera che impedisce le punture di zanzare e di altri insetti, e poi un fondo rigido che protegge il bambino dagli urti accidentali e dai morsi degli animali».

Foto apertura Aldo Gianfrate
Credit foto 1 Giovanni Diffidenti
Credit foto 2 Aldo Gianfrate

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