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Migranti: in Grecia un nuovo imbuto umanitario

Sono oltre 12.500 le persone bloccate negli hotspot sulle isole, dove la capienza massima sarebbe di 5.450 persone. A Lesbo condizioni igieniche disperate e moltissime famiglie costrette a dormire in tenda, mentre le temperature sono in calo. Secondo Nicola Bay di Oxfam è “una pentola a pressione che rischia di esplodere”

di Ottavia Spaggiari

Un nuovo imbuto umanitario, questa volta sulle isole greche dove sono bloccate oltre 15mila persone, 12.500 nei campi ufficiali e circa 2.500 nei campi informali, numeri ormai molto oltre i limiti di capienza degli hotspot che dovrebbero contenere un massimo di 5.450 persone.

«È una situazione disastrosa». Nicola Bay, responsabile della risposta umanitaria in Grecia di Oxfam, al telefono ha la voce concitata. Si percepisce la frustrazione di chi, ancora una volta, si trova davanti ad un’emergenza a cui l’Europa avrebbe già dovuto rispondere da tempo.

Davanti a lui il risultato del discusso accordo Grecia-Turchia, che puntava a fermare i flussi migratori ma che, in realtà, non ha sortito molti effetti, se non quello di bloccare migliaia di persone per mesi nei 5 hotspot sulle isole e nei 2 campi informali ormai al collasso, in un limbo dalle condizioni abitative e igieniche sempre più disperate.

Dalla firma dell’accordo a marzo 2016 sono arrivate in Grecia 45,972 persone (aggiornato al 31 ottobre 2017) ma solo 1.896 migranti sono stati rimandati in Turchia, circa il 4%. Nel frattempo anche gli arrivi sono aumentati. Se infatti subito dopo la firma dell’accordo si era assistito ad un crollo del 90%, negli ultimi mesi la situazione è cambiata parecchio, come afferma Bay: «Il picco estivo degli arrivi è stato molto più pronunciato di quanto non ci aspettassimo e anche dopo l’estate non si è fermato». Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), a settembre sulle isole sono state registrate 5.799 nuove persone e a ottobre 5.007, un aumento del 40% rispetto ad ottobre 2016.

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«Ad essere trasferite sulla terraferma sono solo le situazioni considerate di grave vulnerabilità o i casi di riunificazioni familiari. Tutti gli altri restano sulle isole», spiega Bay. «Anche lo screening di valutazione dei casi di vulnerabilità però è pessimo, non si tiene conto del trauma ad esempio, per cui ci sono persone estremamente fragili che continuano a vivere in condizioni assolutamente inadeguate».

Sulla terraferma ci sarebbero effettivamente strutture in grado di accogliere nuovi arrivi. Secondo Oxfam i 23 siti permanenti sulla terraferma ospitano al momento 11mila persone, mentre 14mila si trovano negli appartamenti e negli hotel del piano di assistenza dell’Unhcr. «Al momento ci sarebbero più di 1000 posti disponibili in appartamento e più di 1000 nei campi, da qui al 31 dicembre poi dovrebbero rendersi disponibili oltre 4mila posti», continua Bay. «Mantenere le persone negli hotspot però è una decisione politica relativa all’accordo con la Turchia, per cui la pre-condizione non scritta era che le persone rimanessero sulle isole, da qui la misura amministrativa di restrizione geografica».

Ci sono tende ovunque. Più di 3mila persone sono costrette a dormire all’aperto”.

Nicola Bay, Oxfam

Quella del centro di detenzione di Moria, sull’isola di Lesbo, è forse la situazione più disperata.

La capacità massima è 1.800 persone ma adesso ce ne sono più di 5mila. Il 60% di chi arriva viene portato qui. «Ci sono tende ovunque. Più di 3mila persone sono costrette a dormire all’aperto. Le docce sono al collasso», racconta Nicola Bay. Qui Oxfam è presente con un progetto di assistenza legale, monitoraggio e protezione. «Di notte Moria diventa una giungla, la sicurezza non è garantita per nessuno, le donne hanno paura anche ad andare in bagno. È una situazione al collasso. In più le temperature sono in calo, si inizia a scendere sotto i dieci gradi. Il rischio è che si ripeta la situazione dell’anno scorso (quando molte persone avevano affrontato anche la neve n.d.r.). L’anno scorso però si trattava soprattutto di uomini adulti mentre adesso ci sono moltissime famiglie, arrivate soprattutto da agosto ad oggi». I bambini a Moria sono circa il 20% sono bambini. Nell’ultimo anno sono anche cambiate le nazionalità di provenienza dei migranti: il 37% turchi, seguiti da iracheni e afghani. A peggiorare le condizioni anche il fatto che molte Ong si siano ritirate dalle isole greche dopo la deviazione dei fondi europei al governo greco. Negli anni infatti, diverse organizzazioni avevano ricevuto finanziamenti dalla Direzione generale per gli Aiuti Umanitari e la Protezione Civile della Commissione Europea (ECHO), per fornire servizi che andavano dalla lavanderia, alla distribuzione dei vestiti, al salvataggio in mare, fino alla protezione dei minori. Oggi la maggior parte dei servizi sono stati affidati al governo greco.

«Negli ultimi mesi abbiamo assistito ad un peggioramento reale delle condizioni. Molte Ong non ci sono più e la macchina pubblica greca non è pronta a gestire la situazione».

Insieme ad altre 18 organizzazioni, tra cui ActionAid, Human Rights Watch e Amnesty International, Oxfam ha inviato una lettera al primo ministro greco, Alexis Tsipras, per chiedere l’annullamento delle restrizioni geografiche e il trasferimento delle persone sulla terraferma. «Abbiamo inviato la lettera anche alle ambasciate degli altri 27 stati membri ma non abbiamo ancora ricevuto nessuna risposta». Eppure la situazione sulle isole sta avendo una ricaduta pesantissima anche sul tessuto sociale. «È una pentola a pressione che rischia di esplodere. Nei campi ci sono persone che aspettano da 20 mesi, si tratta di gente che ha subito dei traumi indicibili per arrivare in Europa e adesso è costretta in un limbo, in condizioni aberranti, senza sapere cosa ne sarà di loro», racconta Bay. «L’altro giorno parlavo con un ragazzo afghano di 27 anni, che è qui da tempo. Mi raccontava di questa ragazzina tredicenne, sta sempre seduta nello stesso posto, tutto il giorno, si alza solo per andare in bagno. Se penso ad una fotografia per raccontare Moria, penso alla desolazione di quella ragazzina», fino ad oggi per lei l’Europa è solo questo.

Foto: Giorgos Moutafis / Oxfam

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