Mondo
MIGRANTI. La Fict: «Le soluzioni vanno trovate in Africa»
Lettera aperta del presidente don Mimmo Battaglia
di Redazione
La FICT, impegnata da sempre nell’Accoglienza, nell’incontro con l’altro, con il diverso, con l’ignota bellezza che si nasconde dietro alla diffidenza verso l’estraneo, non può, in questi giorni, non interrogarsi sull’atteggiamento che l’Italia sta tenendo nei confronti delle navi cariche di umanità disperata in partenza dalle coste nordafricane. Io, figlio di emigranti, non posso non chiedermi: siamo stati fermati noi quando nei primi anni del ‘900 siamo partiti per le Americhe? Sarebbe stato impossibile: nessuna volontà politica, nessuna legge, nessuna punizione, nessun rigore avrebbe potuto chiudere le porte alla speranza di una vita migliore, alla necessità di sopravvivere. Ed ora che siamo dall’altra parte del benessere, possiamo chiudere le nostre lunghe coste, 800 km solo in Calabria, a barconi pieni di uomini, di donne, di bambini disperati, spinti dalla miseria, dai bisogni più profondi e primari, dalla speranza di sopravvivere? Davvero crediamo di poter fermare con la legge un processo che ha cause così profonde, radicato nell’istinto di sopravvivenza? Quale governo, quale politico si prenderà la responsabilità di bombardare le navi in arrivo, dal momento che solo un’azione militare e cruenta potrebbe fermare la fame di vita.
In cuor mio sono convinto che nessuno arriverà a tanto…
Inoltre, parlando di immigrazione, non sarei fedele alla nostra filosofia di base se tralasciassi di ricordare che dietro a questo concetto, ci sono dei volti, delle storie, delle paure: delle persone e delle speranze. Sono nomi, occhi, cuori, carne, ossa, anime. Sono dolore e speranza. L’oltraggio di un passato incapace di garantire un futuro; la speranza disperata di un presente che possa restituire il futuro rubato.
È importante parlare di persone e non di concetti sociologici, perché le parole assumono un significato totalmente diverso se pronunciate in luoghi e contesti differenti: diritti, legalità, giustizia, sicurezza, clandestinità… significano cose diversissime se pronunciate nelle nostre aule istituzionali, nei nostri salotti, nei microfoni delle sale convegni o piuttosto nel silenzio, nel buio e nel gelo di una notte in alto mare, se pronunciati da sazi o con lo stomaco vuoto, da liberi o da perseguitati. Perché le parole diventano l’arma di difesa di una democrazia in panne, diventano arma per tenere fuori le difficoltà e le differenze, diventano mura. Le parole pronunciate da chi è sazio, da chi è forte della propria sazietà ed opulenza perdono la loro dignità per divenire offese. Le stesse parole a cui oggi, in questi mesi, nei nostri centri, stiamo cercando di dare un senso diverso, più profondo, più reale. Più umano
Mi chiedo allora: potremo mai accogliere tutti? Anche questa domanda ha diritto di cittadinanza. E la risposta ad una domanda complessa non può in alcun modo essere semplice ed immediata. Per impedire gli imbarchi, prima che gli approdi, nelle condizioni disumane che abbiamo conosciuto, su relitti del mare che troppo spesso condannano a morte, la soluzione è ragionare in termini di cause e non di sintomi, la soluzione è lavorare per fare rifiorire l’Africa e le zone sottosviluppate di questo mondo. Zone sfruttate ed abbandonate che possono ancora diventare terre pronte ad accogliere nuovi segni di civiltà. Ma questi nuovi segni non si trovano nelle donazioni di riso transgenico, ma con politiche serie di sviluppo ed innanzitutto di incontro e di giustizia, con l’abbattimento del debito estero verso i paesi occidentali. Esiste una risposta civile all’inciviltà della miseria, che è quella della giustizia sociale, non più costruita solo all’interno delle nazioni ma in una scala più grande, unica scala possibile in un mondo globalizzato.
Lo stesso mondo in cui, paradossalmente, le merci hanno diritto di spostamento mentre gli uomini, merci di scarto, non hanno tale diritto. Un problema che è del mondo lo si può risolvere solo globalmente, collettivamente, schierandosi concretamente non dalla parte delle merci ma degli uomini e delle donne, di donne e uomini dalla pelle scura e il sorriso spento.
La FICT, che accoglie nelle sue strutture tante di queste persone, che ne conosce i talenti, ancora una volta sceglie la parte degli impoveriti, proponendo soluzioni diverse e complesse, concrete ed impegnative, piuttosto che accontentarsi di quelle facili del “no, non si può fare”. Soluzioni di riflessione e di scelta, di amore verso la propria terra, considerata un dono da custodire e condividere piuttosto che un possesso. Soluzioni possibili ed urgenti in cui il mondo politico, i cattolici ed i credenti di ogni fede devono necessariamente schierarsi, con la consapevolezza che lo schierarsi sta sempre dalla parte dell’accoglienza,della giustizia, dell’amore.
L’umanità ha bisogno di Umanità. Allora, dobbiamo aggrapparci ai valori universali. A questi dobbiamo affidarci se vogliamo davvero chiederci “se questo è un Uomo”; se vogliamo capire come agire per fare in modo che torni ad essere Uomo pienamente e, allo stesso tempo, dimostrare a noi stessi ed al mondo che vogliamo continuare ad essere chiamati uomini anche noi.
Ho davanti a me un pagina di M. L. King: “Ho un sogno: che un giorno i miei figli non verranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per il contenuto del loro carattere. Ho il sogno che un giorno i miei figli siederanno a mensa con tutti gli altri…” mi fermo qui. Perché fa male.
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