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«Nessun terrorista verrà mai in Europa con un barcone»
Si chiama “Mediterranean Hope”, è un progetto della Federazione delle chiese evangeliche in Italia e ha costituito l’“Osservatorio sulle migrazioni di Lampedusa” e ha partecipato al Forum di Tunisi per costruire ponti tra nord e sud. Vita.it ha intervistato Francesco Piobbichi, operatore sociale e collaboratore del progetto
di Giada Frana
"Mediterranean Hope – Osservatorio sulle migrazioni di Lampedusa" è un progetto della Fcei, Federazione delle chiese evangeliche in Italia, nata dalla consapevolezza della drammatica situazione dei migranti del Nord Africa, Africa sub-sahariana e Medio Oriente che provano a raggiungere le coste siciliane via mare. Un'esperienza che ha partecipato anche al World Social Forum di Tunisi. Vita.it ha intervistato Francesco Piobbichi, operatore sociale e collaboratore del progetto.
Mediterranean Hope ormai opera da quasi un anno a Lampedusa, con sede fissa ed un approccio diverso. Ci può spiegare?
Siamo una delle poche associazioni che ha costruito un intervento e un approccio che tiene conto anche dei bisogni di chi vive sull`isola. Un`isola di confine infatti non ha solo i bisogni di chi arriva al confine, ma anche di chi ci vive. Questo tipo di approccio ci permette di lavorare su un terreno di ricostruzione o di costruzione di un senso comune di identità che non parte dall`identità che viene costruita a livello mediatico.
In che senso?
Nel senso che normalmente si parla di Lampedusa o come del paradiso dell'accoglienza o come isola dell'invasione. Invece si tratta di un'isola di persone, che vivono la contraddizione del confine e cercano rispetto a ciò di tirare avanti. Questo significa tenere in considerazione il terreno della migrazione ma anche il terreno dell'identità di un'isola che in qualche modo è attraversata da processi molto veloci, che cambiano forma anche rispetto alle retoriche.
Un esempio?
Ad esempio negli ultimi tempi Lampedusa è stata di nuovo sottoposta a una retorica per costruire la paura dell`Isis che non aveva fondamento. Giornalisti che stavano sull'isola a domandare ai lampedusani se avessero paura dell'Isis oppure chiedevano se avessero paura che arrivassero missili dalla Libia. C`era quindi l`utilizzo mediatico del palcoscenico dell`isola che secondo noi andrebbe invece smontato e sostituito da un terreno di relazione e di costruzione con le associazioni locali e la società civile lampedusana, per creare un`accoglienza che sia partecipata ed espressione di una popolazione che vive e che è messa al fronte dall`incapacità dei governi di affrontare la situazione.
Perché avete deciso di partecipare al Forum Sociale Mondiale di Tunisi?
Siamo andati Tunisi proprio perché convinti che in qualche modo si possa costruire un ponte Lampedusa-Tunisi, tra l`Europa del Sud e quella del Nord. Bisogna avere la capacità di scendere a sud, oltre il confine, con uno sguardo che lo rimuove, che abolisce il "noi" e "loro", che il concetto di confine costruisce. In questi spazi pubblici si trova il modo di connettersi alla pari con persone che in qualche modo hanno una visione uguale alla propria, ma da punti di vista differenti. Un conto è guardare da Nord a Sud, un conto viceversa.
Avete partecipato a qualche incontro sulla tematica?
Abbiamo partecipato ad un incontro con i familiari dei dispersi del Mediterraneo, molto interessante e secondo me quello più vero: evidenzia l`elemento della sofferenza di queste madri, genitori, fratelli, amici che chiedono la verità rispetto ad un fenomeno che sia i governi europei che quelli del Mediterraneo non hanno tenuto in considerazione per decenni. Non c`è mai una ricerca comune e non c`è mai una responsabilità e ciò fa sì che queste stragi per mare continuino, che vengano considerate quasi come un fenomeno naturale. Invece queste stragi sono il frutto di politiche migratorie e di politiche economiche, di destabilizzazione dei continenti.
Il Forum perciò diventa un modo per fare rete tra le diverse forze della sponda Nord e Sud del Mediterraneo?
Sì, un modo diretto per provare a scendere a Sud per costruire relazioni. Inoltre scendere qui dopo l`attentato vuol dire anche promuovere un`idea di Mediterraneo di pace e non di paura, un Mediterraneo che non ha paura di scendere qua e dialogare con una società civile che ha fatto una rivoluzione e ha bisogno del nostro sostegno per evitare in qualche modo che la questione della lotta al terrorismo chiuda in senso autoritario lo spazio che si è aperto di democrazia in Tunisia.
Ci sono alcuni partiti politici che spingono sulla paura del terrorismo per poter chiudere le frontiere, dicendo che i terroristi potrebbero raggiungere il Belpaese via mare. Che ne pensa?
Il terrorismo esiste ed i terroristi si spostano, è un dato di fatto. Secondo me un terrorista formato, con la mentalità di morire per un ideale, non lo si può creare in cinque minuti, ci vuole del tempo. Metterlo su una barca e rischiare che muoia, mi sembra un`azione stupida e insensata. Se un terrorista vuole entrare in Europa ha mille modi per farlo e l`ultimo è il barcone: rischia non solo di morire, ma anche di essere subito identificato al suo arrivo. Inoltre bisogna pensare che in uno spazio globale il terrorismo è ovunque e ci sono stati anche ragazzi cresciuti in Europa che sono andati a combattere per il cosiddetto Stato Islamico. Il problema non è solo esterno, ma interno, dovuto al fatto che forse alcuni stati hanno determinato una ghettizzazione e un`inferiorizzazione della religione musulmana in Europa e ciò può produrre elementi di reazione che si indirizzano in quel versante.
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