Non profit

«Nessuna corsia preferenziale, ma valutate i nostri bilanci anche sull’utile sociale»

di Redazione

giudicati con criteri che guardino all’economico
ma anche all’impatto sulla comunità»Una realtà se non a misura di non profit, ma che almeno sappia ben relazionarsi con il terzo settore. Che sappia individuarne le potenzialità, che possa valutarne la capacità progettuale, che riconosca il non profit come soggetto anche economico. Al tempo stesso che sia presente sul territorio e rappresenti un punto di riferimento non virtuale, ma concreto. Queste richieste sintetizzano i principali risultati emersi dall’indagine condotta da Vita Consulting.
«Le nostre realtà non hanno a che fare solo con l’economia», spiega Andrea Vellani della cooperativa sociale I Care, «tant’è che il nostro utile di bilancio non riguarda solo l’aspetto economico ma comprende anche l’impatto che le azioni che portiamo avanti hanno sul benessere delle persone e sul territorio». Non c’è solo il Pil, insomma. Un’affermazione sempre più condivisa dagli addetti ai lavori che però fatica a trovare la sua applicazione concreta. Un esempio? Lo fa Vellani: «Siamo una cooperativa sociale di tipo B, creiamo percorsi di inserimento lavorativo per persone svantaggiate. Quando dico che i lavoratori migliori li “cediamo” alle imprese profit che magari ci fanno concorrenza, in banca mi guardano come fossi un kamikaze». Non vedono che la mission prevede proprio questa rinuncia: coloro che si sono emancipati dall’iniziale svantaggio è bene lascino il posto a quanti ancora quel percorso debbono iniziare. Un sacrificio per l’azienda, in termini di risorse umane e di produttività, ma necessario. Se non lo si comprende, come si fa a valutare l’attività di una organizzazione?
Il non profit comunque non chiede vie preferenziali. «Vogliamo soltanto essere valutati con criteri inclusivi che guardino sì all’economico ma anche al sociale», precisa Vellani, che dà voce a una esigenza condivisa. Anche dalle ong. Il Cesvi, ad esempio. Il cui presidente, Giangi Milesi, (nella foto) considera questa una premessa per ulteriori passi in avanti: «La sfida vera per gli istituti di credito è aiutare il non profit a passare dal finanziamento a una forma di accompagnamento vero e proprio. Sostenere il social business». Un cammino senz’altro auspicabile, che richiede tempo e impegno. L’importante è cominciare a fare i primi passi. Che come al solito significano scelte concrete per necessità pragmatiche. Ottima cosa immaginare anticipazioni per il 5 per mille e altre soluzioni finanziarie create ad hoc; man mano però saranno sempre più evidenti problemi ancora poco noti e che richiedono soluzioni specifiche. Due esempi. Primo: la cooperativa I Care ha un parco automezzi formato da 17 macchine elettriche: vorrebbe installare dei pannelli fotovoltaici per alimentarle con l’energia solare. Buonissima cosa. Peccato fatichi a trovare una banca: «Noi vorremmo che un istituto acquisisca il credito dei contributi statali. E che quindi il mutuo necessario sia ripagato in questo modo. Ma non ci riusciamo», chiosa Vellani. Secondo caso: riguarda la raccolta fondi che avviene tramite le donazioni. «Ad oggi una banca non riesce a fornire i dati di un donatore che ti abbia inviato del denaro tramite un bonifico. È ovviamente un elemento fondamentale per una ong. Perché non strutturare meglio la soluzione del bollettino bancario?», chiede Milesi, dopo aver sottolineato che il primo canale per le donazioni è rappresentato dalla questua, seguita dalle Poste. «Le banche avrebbero le strutture adatte – gli sportelli, i bancomat – solo che non hanno ancora compreso a pieno l’importanza di questo aspetto».

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