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Israele

Netanyahu, il capo che si vuol fare sacerdote

Come Saul, anche Benjamin Netanyahu sta combattendo in nome di Dio una guerra sporca, perpetrando una strage assurda. La guerra contro Hamas sta diventando uno scontro tra messianismi, si combatte nel nome di Dio. Ma il problema è che Dio la vede diversamente, basta leggere la Bibbia

di Luca Doninelli

Benjamin Netanyahu in una riunione del gabinetto di guerra a Gerusalemme

Il regresso morale che la terza guerra di Gaza ha innescato ha conosciuto una accelerazione quando il primo ministro israeliano ha paragonato i palestinesi agli Amaleciti, la popolazione che Saul, il primo re d’Israele, riceve l’ordine di sterminare da parte del profeta Samuele (cfr. 1 Sam 15).

Come Saul, anche Benjamin Netanyahu sta combattendo in nome di Dio una guerra sporca, perpetrando una strage assurda e progettando il trasferimento forzato di oltre 2 milioni di palestinesi. Tutti sappiamo perfettamente che il risultato di questa vergogna sarà, qualunque sia l’esito della guerra, una situazione ancora più difficile, e che questa strage è la premessa di altre stragi più grandi, forse di nuove guerre. Ma lui lo fa in nome di Dio, come del resto fa Hamas quando compie le sue stragi e attentati. Questo conflitto tra messianismi ci può spingere a dichiarare il fallimento di Dio e del suo pensiero?

No. Perché Dio, stando alle scritture, la vede diversamente. Chi scrive non è un teologo, ma credo che non occorra essere teologi per stabilire la linea di pensiero di Dio in tema di politica e di potere. Basta leggere la Bibbia, senza nemmeno andare troppo in profondità.

Segnali chiarissimi di tale linea si trovano, si può dire, fin dai racconti della Creazione (pur differenti tra loro per più aspetti) nel Genesi. Sempre nel Genesi, è chiaro che Abramo non è un capopopolo, come non lo saranno Giacobbe e i suoi figli, e nemmeno Mosè. Il capo del popolo è Lui, e solo Lui, Dio.

Chi, tra gli Ebrei (come fra tutti), parla in nome di Dio di solito non se la passa bene con il potere. Come i Profeti. Conosciamo la sorte di Isaia (fu segato in due) e non c’è da stupirsi se un altro profeta, Giona, cerca in ogni modo di sottrarsi al compito che Dio gli ha assegnato.  Il potere non ama molto la verità.

Ma un potere ci vuole, e viene il momento in cui Israele chiede a gran voce un re. Dio, per bocca del profeta Samuele, fa sapere che non è d’accordo, ma il popolo insiste e ottiene un re. A Samuele, che gli manifesta il proprio disgusto, Dio risponde a chiare lettere: “Accontentali. Hanno rifiutato me, non te”.

Come molti sapranno, i re di Israele furono tre: Saul, David e Salomone. Il meno famoso dei tre è Saul, della tribù (guarda caso) di Beniamino. Saul è un omone mite, sembra addirittura buono, ma non lo è, e commette un errore che Dio non può perdonare. Sulle prime non sembra una cosa grave, ne abbiamo viste di peggio. Prima di una battaglia decisiva Saul, il re, deve offrire a Dio il sacrificio rituale, ma il sacerdote (Samuele) non arriva, è in ritardo, e Saul per paura decide di officiare personalmente il sacrificio. Il re si fa, dunque, anche sacerdote. E Dio gli toglie il favore.

Se ci pensiamo, era inevitabile. Dio può tollerare che il suo popolo abbia un re, ma non tollera che il re offici un sacrificio, dimostrando di non credere in Lui; non tollera che il re faccia un uso strumentale della fede (che non ha) per giustificare il proprio potere – la sola cosa in cui, alla prova dei fatti, egli confida.

In altre parole: il re faccia il re, ma entro i limiti della sua competenza.

C’è anche il caso di Davide, uno che ne ha fatte di tutte, ma al quale, viceversa, Dio non toglie mai il suo favore. Davide si comporta più volte da farabutto, questo è vero, ma resta un uomo umile davanti a Dio, e non si sostituisce mai a Lui. Quando suo figlio Assalonne si ribella e scoppia la guerra, Davide è costretto a fuggire con i suoi in una zona romita. Assalonne è ormai a un passo dalla vittoria, contro suo padre ha argomenti da vendere, e il popolo volubile adesso è dalla sua parte.  Ma ecco, nell’accampamento di Davide compaiono, senza essere stati chiamati da nessuno, i leviti, ossia i sacerdoti del Tempio, portando con sé l’Arca dell’Alleanza. Davide chiede ragione della loro decisione, loro rispondono che intendevano mettere in salvo l’Arca contro la violenza di Assalonne. Ma Davide, indignato, ordina ai leviti di riportare immediatamente l’Arca nel Tempio: essa non è affatto un’insegna di legittimità regale, ma il segno dell’Alleanza tra Dio e gli uomini. Sanno forse, i leviti, chi tra Davide e Assalonne ha in animo, Dio, di favorire?

Il loro formalismo già fariseo ante-litteram lo disgusta.  Un re non è in nessun modo il garante del rapporto tra Dio e il suo popolo. I re passano, la loro sede è questo breve tempo, ossia la storia, e il loro operato si svolge sul piano della politica e non ha nulla a che vedere con l’eternità.

Un re non è in nessun modo il garante del rapporto tra Dio e il suo popolo. I re passano, la loro sede è questo breve tempo, ossia la storia, e il loro operato si svolge sul piano della politica e non ha nulla a che vedere con l’eternità.

Ma veniamo al Nuovo testamento e a Gesù. Gesù riprende questi pensieri con una frase da cui è nato tanto pensiero politico: date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio. Come tutti sanno, queste parole vengono pronunciate in merito al tributo a Cesare. Quelli che mettono Gesù alla prova vogliono conoscere la sua posizione rispetto alla dominazione romana e, implicitamente, ai diversi partiti in cui il popolo di Giuda è diviso su questo tema. Gli zeloti (cui Gesù viene apparentato) sono per la cacciata dell’invasore con le armi, i sadducei – la casta più elevata – accettano con esso un moderato dialogo, i farisei resistono difendendo a oltranza l’ortodossia, fin nei minimi particolari.

La risposta di Gesù è limpida e provocatoria, se pensiamo che si riferisce a un uomo (Cesare) che è anche dio. Il senso delle sue parole è letterale, non c’è bisogno di troppe interpretazioni. Quello che è di Cesare è di cesare, ok, ma quello che è di Dio non è di Cesare.

Se qualcuno vuole uccidere Gesù, ecco un argomento buono per Roma. Ma nemmeno gli zeloti si possono dire soddisfatti, perché Gesù non delegittima il potere terreno, storico di Cesare: nega l’autogenerazione del potere attraverso la radice sacerdotale (Cesare è anche Sommo Sacerdote). Quanto ai farisei, c’è da credere che il pensiero di Gesù sia troppo ampio per interessare gente che si scanna – è successo allora, succede sempre – discutendo di un certo rituale, di una certa prescrizione, e non vede oltre il proprio naso.

Ecco, da lettore semplice, non da esperto o studioso ma solo da amante, il risultato di una lettura piana. Ho letto la Bibbia come si legge un romanzo: il risultato, sul piano del rapporto tra potere e religione (o tra potere temporale e potere spirituale) è questo. E se questo è il senso letterale, è ben difficile che un’altra lettura possa smentirlo.


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