Protezione civile
Niccolò Mancini (Anpas): «Calamità naturali in aumento? Più volontari ci sono, meno siamo in pericolo»
Il presidente dell’Associazione nazionale pubbliche assistenze presenta i numeri e le iniziative portate avanti dall'Anpas con professionalità da tanti anni e attraverso numerose iniziative. Le emergenze richiedono competenze e non improvvisazione. La necessità di informare adeguatamente i cittadini e ripartire dal senso di comunità. Il valore dei giovani e lo sforzo per intercettare i "volontari spontanei"

«Abbiamo sempre avuto un approccio con il tema della protezione civile in una logica di cultura sugli eventi calamitosi che ormai si susseguono sempre più numerosi. Lo abbiamo fatto cercando sempre di lavorare in un’ottica di preparazione e formazione rivolta non solo a tutti i volontari delle nostre pubbliche assistenze, ma anche ai cittadini». Il presidente dell’Associazione nazionale pubbliche assistenze – Anpas, Niccolò Mancini (al centro nella foto in apertura), non è tipo da crogiolarsi sui risultati ottenuti da questa grande realtà del Terzo settore, nata formalmente nel 1987 ma al termine di un lungo percorso avviato addirittura nel 1848 dalle Società operaie di mutuo soccorso. Non a caso, alla fine del 2025, saranno ben 96 le pubbliche assistenze che vanteranno più di 100 anni di vita. Oggi l’Anpas rappresenta 936 pubbliche assistenze, oltre 100mila volontari e 500mila soci, 1.727 giovani in servizio civile, 5.152 dipendenti su tutto il territorio nazionale e 9.104 mezzi. Nell’attività di prevenzione in protezione civile, soltanto nel corso del 2024, nella campagna “Io non rischio” sono stati impiegati 960 volontari in 210 piazze. Per la “Giornata del cuore”, l’evento dedicato alla prevenzione delle malattie cardiovascolari, sono stati 2.100 i volontari in 130 piazze, con 13mila cittadini intercettati.

«Da tempo si è capito che prepararsi, far girare ogni informazione in nostro possesso soprattutto tra la popolazione, è un elemento che incide fortemente sugli esiti di emergenze improvvise e che a volte non si possono prevedere, ma anche di come si affronta il momento in cui l’emergenza si presenta», sottolinea Mancini. «Valeva anche quando eravamo abituati a eventi come i terremoti, che si presentavano sporadicamente. Negli ultimi anni, invece, sono diventati più frequenti le alluvioni, gli incendi e altri eventi atmosferici di breve durata ma che incidono pesantemente sui singoli territori e le comunità. Ecco, le popolazioni (in particolare le giovani generazioni) devono crescere con la consapevolezza che questi rischi esistono e le buone pratiche aiutano a mitigarli, ad affrontarli meglio e a interagire in maniera più efficace con gli operatori durante le emergenze.
In quale modo portate avanti questo lavoro nel lungo termine?
Intanto, attraverso i nostri campi scuola nel periodo estivo, quando le scuole sono chiuse e gli impegni dei giovani si riducono rispetto all’attività ordinaria. In questi eventi si parla di emergenze, di tutela dell’ambiente (dai boschi alle spiagge), del sistema di protezione civile, dei comportamenti da adottare e dei rischi che si possono correre, ma c’è lo spazio anche per il confronto didattico e le attività ricreative. Dal 2008 ad oggi abbiamo accolto una enorme quantità di ragazzi, di cui 500 soltanto nel corso del 2025. Poi, in collaborazione con il dipartimento della Protezione civile, abbiamo condotto una bella progettazione, chiamata “Impact”, attraverso la quale stiamo cercando di comprendere meglio il fenomeno del volontariato spontaneo o non strutturato. Stiamo completando una serie di analisi e di ricerca scientifica, i cui risultati saranno divulgati nelle prossime settimane.

Negli ultimi anni, le emergenze nazionali hanno mostrato la partecipazione di una moltitudine di giovani che si sono presentati spontaneamente a dare una mano. Ma, nell’ambito della protezione civile, l’entusiasmo non basta.
La risposta della società civile, in effetti, è stata molto importante. Noi ora stiamo cercando di capire come questa grande disponibilità e sensibilità, che è insita nel nostro popolo e non va sprecata, possa essere canalizzata nelle grandi organizzazioni che possono fornire preparazione, strumenti e tutele, massimizzando l’efficacia degli interventi. Questa partecipazione di responsabilità sociale non va sprecata. Abbiamo realizzato un gioco, “Impacta”, che fa capire a un giocatore il proprio livello di preparazione rispetto alle emergenze. Ognuno in questo story game si misura con uno scenario virtuale che costringe a fare delle scelte: possono essere idonee e tutelanti, oppure controproducenti. È un modo per utilizzare le nuove tecnologie e rendere più avvicinabili temi di questa natura.
Attraverso un bando di Italia Digitale, avete pubblicato un bando. Come è andata?
Con “Utility” andremo a elaborare e rendere disponibile una formazione nell’ambito del digitale che permetta al nostro interno di sviluppare nuovi strumenti. Tutto questo va a integrare la formazione che, dal 2015, oltre 16mila volontari nei vari ruoli affrontano con impegno, preparandosi alla chiamata per l’emergenza di turno. Sia essa di scala nazionale, regionale o locale.
Come si spiega il mordi e fuggi di queste esperienze dei giovani che non sono organici all’Anpas e ad altre realtà strutturate?
Le risposte che ci sono pervenute attraverso il nostro sondaggio sono state davvero una moltitudine e piuttosto variegate. Abbiamo analizzato migliaia di risposte a campione. La maggior parte dei ragazzi ha detto, in sostanza, di non avere molto tempo da dedicare al volontariato in maniera continuativa e impegnativa: a causa dello studio, qualcuno per il lavoro, altri per impegni familiari o difficoltà negli spostamenti. Talvolta queste scelte, o non scelte, sono legate alla non conoscenza di partecipare alle attività delle organizzazioni di volontariato. Sappiamo bene che un intervento studiato e preparato ha un’efficacia e offre garanzie maggiori, ma si continua a registrare una disponibilità di massa legata all’evento che si verifica sul momento. Dobbiamo essere più bravi nel comunicare che l’impegno non è dettato sempre e solo da grandi disponibilità di tempo ma, a seconda di ciò che si vuole produrre o della sensibilità del singolo cittadino, può essere più limitato. Il quadro che emerge, lo ripeto, è estremamente eterogeneo e complesso. Insomma, tutti dovremmo sforzarci di conoscere meglio il funzionamento delle cose. Noi, però, dovremmo far capire che all’interno delle nostre organizzazioni vi è un’ampia disponibilità che va incontro alle esigenze delle persone che si vogliono avvicinare al volontariato.

Insomma, dovete far percepire il senso delle attività che sviluppate nel quotidiano.
Esattamente, ma non solo. In quelli che si chiamano comunemente “periodi di pace” per quanto riguarda il tema della protezione civile, ci sono azioni legate a visioni, valori, a un senso di solidarietà che richiama alla responsabilità sociale. Quando si va a levare il fango dalle strade, non si sposta soltanto una certa quantità di terra da un punto all’altro: ci sono delle vite in ballo, c’è un effettivo beneficio che va oltre un momento di criticità per una certa comunità.
Anpas deve fare i conti anche con la pubblica amministrazione e i Piani di protezione civile. Come siamo messi in Italia sotto questo profilo?
Il nostro Paese non presenta uniformità, ci sono enormi differenze tra un Comune e un altro, tra una regione e l’altra, tra diverse aree geografiche. Dal punto di vista delle istituzioni occorre mettere dei punti fermi che, ovviamente, vanno perseguiti con convinzione, rispetto al raggiungimento di una necessaria omogeneità. Il più standardizzata possibile. In questo modo sarà possibile garantire la stessa qualità d’intervento e di accesso alle azioni di risposta, di preparazione e di intervento. Questo approccio non riguarda soltanto la protezione civile, ma anche la sanità e i servizi sociosanitari. L’Italia vanta risorse importantissime, quelle del volontariato, ma non si deve commettere l’errore di pensarle come semplici erogatori di servizi. La nostra interlocuzione deve andare verso l’intercettazione e l’interpretazione dei bisogni, ma anche verso lo sviluppo-evoluzione di quei sistemi di comunità che poi permettono, insieme alle istituzioni, agli interventi che si mettono in campo durante gli eventi emergenziali.

Qual è la più grande criticità del sistema di protezione civile?
Sembrerò romantico in questa risposta, ma a mio avviso ce n’è una che spalmo su una grande varietà di temi: dobbiamo ripartire dal senso di comunità e promuovere delle azioni che facciano sentire i cittadini davvero coinvolti negli esiti delle vicende che viviamo tutti i giorni. Dobbiamo lavorare tanto nelle scuole e sui giovani, stando attenti a non cadere nella retorica: i giovani sono giovani oggi e devono poter costruire il loro futuro oggi. Dobbiamo condividere una responsabilità che ha un impatto su ognuno di noi, a livello individuale e sociale. Una forte consapevolezza culturale, che si traduca in azioni, è forse la cosa più importante che dobbiamo ritrovare in un momento storico molto difficile per tutti. Se cresciamo cittadini che abbiano vivo questo spirito libero, tutto può andare meglio ed è più facile sviluppare progettualità che permettano una qualità di vita migliore.

I giovani, di frequente, lamentano in tutti gli ambiti della vita sociale uno scarso protagonismo. Ma nella protezione civile esso va coniugato con le competenze.
Le due cose non sono conflittuali. La settimana scorsa, durante un nostro meeting regionale in Piemonte (“Il futuro è adesso”), abbiamo sviluppato questa tematica. È logico che bisogna trovare un reciproco coinvolgimento. La nostra organizzazione ha tanti volontari, di tutte le fasce d’età, e convivono trovando equilibri e protagonismi a volte faticosi, ma non impossibili. Una palestra di democrazia di cui spesso si parla. Io sono ottimista, vedo ancora questo processo fattibile.
Credits: foto Anpas
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