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Non solo accogliere, ma vivere insieme lungo la rotta Balcanica

Si stima che siano almeno 100mila le persone che ogni anno provano a percorrere la rotta Balcanica. «Nessuno ne parla», dice Silvia Maraone, project coordinator in Bosnia Erzegovina di Ipsia, ong delle Acli. «Ma è uno dei percorsi migratori più pericolosi e difficili. Noi lavoriamo nei campi di Borici e Lipa nel cantone di Una - Sana. Incontriamo persone di religioni diverse, ma il Natale - anche in un non luogo come il campo profughi - è sentito come un momento di comunità. Le persone hanno bisogno di ritrovare il calore di stare insieme»

di Anna Spena

La rotta Balcanica inizia in Turchia, fisicamente finisce in Italia, a Trieste. Ma il viaggio di chi fugge inizia molti chilometri prima per finire poi nel Nord Europa. La prima rotta Balcanica parte ufficialmente il 25 ottobre del 2015: Grecia, Macedonia, Serbia e Ungheria. Allora furono oltre 800mila i migranti, soprattutto siriani in fuga dalla guerra, che provarono a percorrerla. In molti arrivarono finalmente in Germania per chiedere l’asilo politico. Per l’Europa erano “troppi”. Così pochi mesi dopo, nel marzo del 2016, Bruxelles siglò un accordo con Ankara per limitarne l’arrivo. Ma i confini sono come un colabrodo quando a far partire le persone è la disperazione, e da allora rotta Balcanica non ha mai smesso di essere percorsa.

 «La rotta Balcanica», racconta Silvia Maraone, project coordinator in Bosnia Erzegovina di Ipsia (Istituto pace e sviluppo innovazione Acli), «è lo specchio dell’Europa che vuole nascondere i migranti sotto al tappeto. Gestire il fenomeno migratorio non può significare chiudere le frontiere: bisogna supportare le persone in transito. La stima delle persone che ogni anno attraversano la rotta varia tra le 80mila e le 100mila. Negli ultimi mesi le nazionalità principali sono afghana e siriana». 

Ipsia lavora in due campi profughi ufficiali che si trovano a nord del Paese, nel cantone di Una-Sana. «A Borici, un campo per famiglie e minori stranieri non accompagnati, che rappresentano sempre circa il 10% delle presenze totali e poi nel campo profughi di Lipa, un campo solo per single man, dove ora si trovano circa 800 persone».


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All’interno dei campi l’ong, anche con il supporto di Aics – agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, ha aperto dei social café: «Punti condivisione della vita quotidiana», spiega Maraone. «Le persone si incontrano per consumare una bevanda calda, o per partecipare ai laboratori creativi, o a quelli sportivi o ancora ai corsi di lingua inglese o italiana. L’idea è quella di passare insieme del tempo di qualità, anche si siamo in un campo profughi».

Negli ultimi mesi: «sono aumentati», spiega Maraone, «i respingimenti al confine tra la Bosnia e la Croazia e l’uso della violenza. I viaggi lungo la rotta Balcanica possono durare interi mesi e le attività di Ipsia sono state tutte pensate per far riscoprire alle persone un senso di prossimità. «Il Natale è un momento molto sentito», spiega Maraone, «anche se la maggioranza delle persone che incontriamo è di religione musulmana. Noi abbiamo preparato insieme a chi ora si trova nei campi, delle decorazioni per addobbarli. Nei momenti di festa si sente ancora di più la distanza dalle persone che amiamo, figuriamoci cosa possono sentire persone che sono state costrette a lasciare la famiglia e il loro Paese mesi e mesi fa. Il Natale – anche in un non luogo come il campo profughi – è un momento di comunità. Le persone hanno bisogno di ritrovare il calore di stare insieme».


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