Qualche settimana prima di Natale, seduto sul divanetto bianco della regina dei talk show e amica fidata Oprah Winfrey, Barack Obama ha giudicato il suo lavoro svolto in questo primo anno di presidenza: «Mi darei un bell’8+», ha detto. «E se riuscirò a portare a casa la riforma della sanità», ha aggiunto nelle settimane precedenti allo storico voto del Senato, «potrei spingermi addirittura ad un 10-». Il presidente non pecca certamente di falsa modestia e gli avversari che si è procurato in quest’anno di governo non hanno tardato a farlo notare. A fianco di coloro che promuovono Obama a pieni voti ci sono, infatti, molti americani per i quali, ad esempio, il dispendioso “stimulus package” non ha portato i risultati sperati e l’assenza dell’offerta pubblica ha fatto della sbandierata riforma sanitaria un legge monca.
Tuttavia, comunque la si pensi, vero è che in dodici mesi di lavoro Obama ha già lasciato un’impronta chiara e tangibile. L’America di oggi è un Paese già molto diverso da quello di un anno fa.
Stimulus package:
787 miliardi di dollari
All’incirca ogni presidente, nel suo primo anno di incarico, si è trovato a fronteggiare una grossa emergenza. Per John Kennedy fu la crisi della Baia dei Porci, per Clinton la guerra in Somalia, per George W. Bush l’attacco dell’11 settembre; per Obama l’emergenza è stata la crisi economica dell’autunno 2008, la peggiore che l’America abbia sperimentato dal periodo della Grande Depressione. Per tutta risposta, il presidente ha varato il più consistente “stimulus package” che gli Usa ricordino: 787 miliardi di dollari che serviranno a rilanciare l’economia con progetti che riguardano opere pubbliche, ma anche scuole e ospedali. Una buona fetta è stata devoluta a sostenere un numero record di disoccupati – oltre 15 milioni a fine 2009 – tramite assegni mensili, food stamps e copertura sanitaria attraverso l’agenzia statale Medicaid. Lo stimulus package è stato anche il primo esempio di politica bipartisan targata Obama, visto che l’approvazione al Senato è avvenuta grazie anche a tre voti repubblicani. In cambio Obama ha concesso loro tasse meno salate per le classi alto borghesi, ma è riuscito a tenere duro sul capital gain e sugli immobili di pregio. Già a metà anno, in molti denunciavano il fallimento del piano economico e la necessità di vararne uno nuovo. Obama per il momento nicchia ed incassa. E si tiene pronto per un’eventuale nuova tranche di aiuti economici, magari quando la polemica sullo spreco di soldi pubblici si sarà sopita.
Bailout a banche
e compagnie automobilistiche
La crisi economica americana ha travolto alcune tra le colonne portanti dell’economia e della finanza americane. Stretto tra le accuse di “socialismo” e quelle di lassismo, Obama ha tentato un approccio differente per l’industria automobilistica e per quella bancaria; con la prima, è intervenuto in forma massiccia, nel timore, certamente, di contrariare i sindacati, protagonisti della sua vittoria. Finita in bancarotta, la “nuova GM” è rinata sotto l’egida del governo americano che, ad oggi, insieme a quello canadese, detiene il 61% della nuova società. Con le banche l’approccio è stato più cauto. Deludendo molti liberal radicali, Obama ha evitato fermamente ogni ipotesi di nazionalizzazione e piuttosto ha incaricato il segretario al Tesoro, Tim Geithner di sviluppare un piano che facesse forza sull’iniziativa privata, usufruendo solo in parte di fondi pubblici. Istituti bancari e assicurativi come Aig, American Express, Goldman Sachs, JP Morgan Chase e Morgan Stanley hanno ricevuto dal governo americano oltre 250 miliardi di dollari. Ma è stata la notizia che la stessa Aig aveva distribuito ai propri top manager oltre 150 miliardi di dollari in bonus a far andare Obama su tutte le furie. Dopo averli appellati come vergognosi e ingordi (letteralmente «shamefull fat cats») il presidente ha prima messo un tetto agli stipendi dei manager di aziende che hanno ricevuto aiuti statali e poi ha costretto le stesse società a restituire allo Stato almeno un quarto dei prestiti. Il pugno di ferro è servito a salvare la faccia solo in parte: per molti americani i prestiti alle banche sono stati un tradimento della promessa elettorale di cambiamento.
Riforma sanitaria.
La scommessa
Quest’anno per Natale gli americani hanno ricevuto un regalo che attendevano da 75 anni: la riforma della sanità. Il presidente ci sta lavorando dal primo giorno del suo insediamento con un abile gioco di sponde tra gli entusiasti liberal Democratici e i possibilisti centristi Repubblicani. Dopo mesi di discussioni e nonostante la vasta maggioranza Democratica, a novembre scorso la Camera ha approvato il testo della riforma con un margine di soli cinque voti; alla vigilia di Natale, il Senato ha dato il suo ok con un solo voto Repubblicano. Il problema che si pone è che i due testi approvati differiscono in un punto, certamente il più importante: l’offerta pubblica. Le due versioni hanno in comune severe pene nei confronti delle compagnie assicurative che si rifiutano di pagare le spese mediche o scaricano i propri clienti nel mezzo della malattia. Entrambe inoltre richiedono che tutti gli americani abbiano un’assicurazione medica, pena salatissime multe; per i ceti meno abbienti è previsto l’inserimento nel programma Medicaid, per gli altri l’opportunità di acquistare liberamente l’assicurazione più competitiva all’interno di un mercato aperto. La versione della Camera, tuttavia, prevede che anche il governo faccia ingresso nel mercato con una propria offerta assicurativa o con cooperative mediche aiutate da fondi pubblici; di questa opzione non c’è invece traccia nella legge licenziata dal Senato. Spetta ora ad una “conferenza delle commissioni”, composta da rappresentanti di Camera e Senato, trovare un accordo tra le due versioni. La proposta delle cooperative mediche sembra rappresentare un buon compromesso.
Immigrazione,
a mani legate
La promessa di Obama – l’ennesima – era di una riforma della legge sull’immigrazione entro la fine del 2009. Il segretario alla Difesa nazionale, Janet Napolitano era già stata allertata così come quello al Lavoro, Hilda Solis. Ma la riforma non si è fatta e non solo perché il presidente aveva una lunga lista di priorità; la recessione, con la disoccupazione alla stelle e il conseguente sentimento di frustrazione da parte di molti cittadini americani, non avrebbe certamente creato il clima ideale per una riforma il cui cuore è il riconoscimento dei milioni di immigrati clandestini che già lavorano negli Usa. Facendo attenzione a non esacerbare gli animi, i portavoce del presidente minimizzano l’impatto della riforma: nessun nuovo ingresso ma la solo la regolarizzazione – a costo del riconoscimento dell’infrazione e del pagamento di una sanzione – di situazioni di fatto. A dimostrazione di questo l’amministrazione Obama ha ribadito il pugno di ferro con gli stranieri che volessero introdursi illegalmente negli Usa: nessuna tolleranza e controllo serrato delle frontiere. La verità è che l’immigrazione di clandestini, per lo più a scopo lavorativo, è oggi negli Usa un fenomeno macroscopico che coinvolge circa 12 milioni di persone, 500mila delle quali ogni anno finiscono dietro le sbarre per violazione delle leggi. In tempi di crisi economica sarà forte per molte aziende la tentazione di importare illegalmente manovalanza a basso costo. Per il 2010, Obama non potrà quindi rimandare ulteriormente questa riforma.
Ambiente,
pollice verso
Obama è salito alla Casa Bianca con in tasca la promessa di un futuro più verde. E dal primo giorno della sua presidenza ha preso il via anche un estenuante braccio di ferro con il Congresso proprio sul tema dell’ambiente. Da un lato ci sono i continui appelli del presidente per porre un tetto alle emissioni serra e per l’uso di energie verdi come quella eolica e solare; per la prima volta è stato annunciato, ad esempio, che il dipartimento degli Affari interni appalterà acque pubbliche in mare aperto per permettere la produzione di elettricità sfruttando l’energia prodotta dal vento, le onde e le maree. Il Congresso dal canto suo e gli stessi ministri di Obama, pur avvallando a parole la posizione del presidente, non hanno fino ad ora inserito in agenda alcuna discussione seria sull’ambiente. Dopo mesi di botta e risposta tra Casa Bianca e Congresso, a detta di molti Obama si è arreso ai suoi avversari: nella stesura finale del budget federale, infatti non c’è più traccia dei 650 miliardi di dollari che inizialmente la sua amministrazione prevedeva di stanziare in dieci anni per il piano di “cup and trade”. Anche dopo i modesti risultati della Conferenza di Copenhagen, il dubbio è che Obama abbia ridimensionato notevolmente i propri obiettivi ambientalisti. E i verdi d’America sono già sul piede di guerra.
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