Lavoro sociale

Oltre 120mila in piazza, i “Cipputi” contemporanei del Terzo settore

Manifestazioni in tutta Italia. I lavoratori del socio-sanitario assistenziale chiedono aumento salariale e condizioni dignitose. Dopo il Covid, il comparto è in forte difficoltà per la mancanza di ricambio generazionale e fuga nel sistema pubblico

di Gabriella Debora Giorgione

Oltre il 90% di adesione allo sciopero dei 135mila addetti del Terzo settore socio-sanitario assistenziale ed educativo alle dipendenze delle strutture associate ad Uneba, l’Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale o che, in ogni caso, applicano il contratto collettivo nazionale di lavoro del settore. 
Alla base della mobilitazione, avviata nei mesi scorsi con la proclamazione dello stato di agitazione e lo svolgimento di sit-in e presidi di fronte le sedi delle Regioni e in tutte le province, il mancato rinnovo del Contratto nazionale, scaduto da quasi cinque anni.
La protesta, indetta dai sindacati di categoria Fp-Cgil, Fisascat-Cisl, Fp-Cisl, Uil-Fpl e Uil-Tucs nazionali, arriva dunque perché il contratto è scaduto da quasi cinque anni, una piattaforma di rinnovo è stata presentata 44 mesi fa e dopo oltre due anni di trattativa nulla ancora si è mosso, neanche dopo l’ultimo incontro con l’associazione datoriale del 12 settembre, durante il quale Uneba ha palesato un sostanziale passo indietro sulle posizioni ritenute dai sindacati inaccettabili ed ha dichiarato la volontà ad intraprendere un negoziato che accorci i tempi del rinnovo entro il mese di giugno 2025.

un momento dei presìdi del 16 settembre 2024

Uneba si è detta anche disponibile a ragionare di incrementi economici a partire da circa 100 euro mensili. All’incremento economico, si aggiunge la disponibilità a prendere in considerazione alcuni temi della piattaforma sindacale come, ad esempio, la maternità.
Nonostante questo, però, i sindacati hanno valutato contestualmente insufficiente la disponibilità datoriale al dialogo ed hanno quindi ritenuto di non poter sospendere lo sciopero.

Per Luca Degani, presidente regionale Uneba Lombardia, «Lo sciopero è e resta un diritto dei lavoratori, quindi nessun contrasto se non il tentativo di comprendere il motivo della loro preoccupazione. Il settore sociosanitario ha un tema fondamentale: vive di trasferimento di risorse pubbliche che non sono di per sé insufficienti perché allocate in maniera errata», ci dice. Degani ci spiega come e perché è cambiato il lavoro sociale: «Il mondo Uneba è fatto di realtà che hanno visto mutata la loro popolazione assistita: da servizi sociali per anziani in difficoltà sociale, economica ed abitativa, tipici di mezzo secolo fa ad anziani portatori di un forte stato di non autosufficienza sociosanitario, mediamente ultraottantacinquenni con tre o più patologie. Persone alle quali offrire prestazioni sempre più complesse residenziali, ambulatoriali e diurne e domiciliari. Se però le risorse economiche a disposizione sono rimaste quasi immutate, se non diminuite, come valore assoluto, le risorse umane impegnate sono sempre più specializzate e con carichi di lavoro importanti», conclude.

Luca Degani

Ne abbiamo parlato anche con Aurora Blanca, segretaria nazionale Fisascat-Cisl con delega al terzo settore socio sanitario assistenziale educativo: «Abbiamo avuto adesioni importanti allo sciopero, quasi il 90%, ma tenga conto che si tratta di lavoratori di prestazioni essenziali, quindi la precettazione è quasi d’obbligo. Le fasce di adesione sono elevatissime in Lombardia, Veneto e Piemonte, man mano che scendiamo lo stivale sono minori gli aderenti al contratto Uneba», di spiega.
Di fronte ad un contratto scaduto nel 2019 e ad una accelerazione dovuta al Covid, i sindacati hanno chiesto condizioni di lavoro dignitose su due macro-aree: adeguamento del potere economico delle retribuzioni anche per effetto dell’inflazione e condizioni di vita che consentano di conciliare le esigenze personali con il lavoro.

Arurora Blanca

«C’è un altro aspetto importante: durante il Covid il sistema pubblico ha avuto uno sblocco delle assunzioni per via dell’emergenza. Quindi il privato si è visto spogliato di personale qualificato: molti infermieri e operatori socio-sanitari-Oss, infatti, sono andati a lavorare nel pubblico», ci spiega Blanca.
Sulle strutture private, dunque, il carico di lavoro è rimasto ma a gestirlo c’è stato sempre meno personale e, soprattutto, sempre meno personale professionalmente qualificato, anche perché il ricambio generazionale dei lavoratori tarda ad arrivare. Il che si traduce in aumento di stress lavorativo perché pochi ricordano che il lavoro socio-assistenziale porta con sé un elemento costitutivo: la cura e la relazione nella cura.


«Oggi abbiamo una difficoltà oggettiva nel reperire personale di Terzo settore, in particolare su tre figure professionali formate: infermieri, oss ed educatori», continua la segretaria nazionale Fisascat-Cisl, che precisa come non ci sia «Un passaggio di competenze tra chi emigra nel pubblico e i nuovi lavoratori sociali, che non è solo formazione ma anche esperienza “on the job” che si acquisisce solo dopo anni di lavoro ed esperienze sul campo peculiari per ogni struttura, non esistono casi “assoluti” e metodi di lavoro validi per tutti».
Quali, allora, le soluzioni?
«Sicuramente rinnovare i contratti, che significa rinnovare il potere economico per rendere più attrattivo ai giovani il lavoro nel settore sociale. Ma non basta. Credo sia necessario intervenire subito su altre regole normative e negoziali: il riconoscimento delle prestazioni rese nei tempi di precetto, quando si resta a disposizione della struttura, il riconoscimento delle competenze dei lavoratori e la loro valorizzazione, il riconoscimento delle esigenze di vita familiare. Ma penso soprattutto che si debba cominciare a dare una narrazione differente di questo settore che, non dimentichiamo, è a prevalenza femminile spesso costretta ad un part-time “involontario”», conclude Blanca,

Tutte le foto sono state concesse a VITA dall’Ufficio stampa nazionale Fisascat-Cisl

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