Relazione medico-paziente

Oncologi medici a scuola di ascolto e umanità

Le capacità per entrare in relazione con l'altro si possono apprendere e vanno allenate. Da questa evidenza, insieme al fatto che spesso non sono presenti nel percorso di studio dei medici, ha portato alla nascita dell'offerta formativa "Humanities in Oncology" del Collegio dei primari oncologi medici ospedalieri Cipomodel Cipomo dedicata ai giovani colleghi di tutta Italia

di Nicla Panciera

La relazione, l’ascolto, l’empatia migliorano l’efficacia delle cure e la qualità della vita sia del medico sia del paziente. Possono, quindi, fare la differenza. Lo dicono a gran voce le esperienze e i vissuti di chiunque convive con una malattia e lo confermano gli studi scientifici i quali suggeriscono che un atteggiamento orientato al paziente si può apprendere e indicano le migliori metodiche per farlo. Non si tratta di un semplice tratto caratteriale, ma è parte delle competenze professionali al pari di tutte le altre mediche e specialistiche.

Per insegnare ai giovani oncologi come entrare in relazione con ogni paziente, indipendentemente dalle sue caratteristiche individuali, culturali o socioeconomiche, è nata la scuola Humanities in Oncology del Collegio dei primari oncologi medici ospedalieri Cipomo, prima in Italia e una delle prime in Europa rivolta ai medici oncologi, tesa a creare una connessione tra l’oncologia, le scienze umane applicate in medicina e l’addestramento alla comunicazione. Giunta ormai alla sua seconda edizione, è composta da tre moduli, tre fine settimana dedicati a tre macrotemi, come il tempo e la parola, il dolore e la speranza, il gruppo (dei colleghi) e i sistemi, per un totale di 37 ore di formazione per le quali verranno riconosciuti 50 crediti Ecm. Il primo fine settimana si è già svolto a Piacenza, grazie anche al sostegno della Fondazione CR di Piacenza e Vigevano.

«Sono tutte competenze fondamentali che restano spesso al di fuori dei normali percorsi formativi universitari e post-universitari ma che sono apprendibili e allenabili» spiega la presidente del Collegio dei primari oncologi medici ospedalieri Cipomo Luisa Fioretto, socia fondatrice della Scuola e direttrice del Dipartimento Oncologico dell’Azienda Sanitaria Toscana Centro. Proprio domani si apre il congresso nazionale Cipomo a Firenze e si parlerà del gradimento di questa innovativa esperienza presso i frequentanti della prima edizione, che hanno partecipato a una survey.

Anche per effetto della crescente innovazione terapeutica che, insieme alla precocità delle diagnosi, ha contribuito all’aumento della sopravvivenza dei pazienti oncologici, oggi «siamo concentrati molto sulla malattia e meno sul malato» spiega Luigi Cavanna, past president di Cipomo e socio fondatore della scuola. «I pazienti vivono la diagnosi di cancro come uno degli eventi più traumatici e sconvolgenti. I minuti da dedicare alla visita sono pochi? È la qualità a contare: è fondamentale trasmettere al malato che non sarà solo ad affrontare la malattia, ma avrà accanto medici ed infermieri, non solo con competenze tecniche ma anche con umana comprensione, vicinanza e gentilezza. Ciascuno di noi deve fare la propria parte e può fare molto».

Dire la verità

«Nella relazione bisogna dare spazio all’ascolto, che è un aspetto molto importante anche perché l’informazione corretta che riusciamo a trasmettere dipende molto da quello che l’altro può capire» ha spiegato nella sua lezione introduttiva Gabriella Farina, direttrice responsabile dell’oncologia del Fatebenefratelli di Milano.  Inoltre, «bisogna dare valore alle parole e dire sempre la verità senza però distruggere la speranza. Anche perché è sulla verità che si costruisce la fiducia. Non bisogna mai nascondere le insidie né eccedere con l’ottimismo. Guai a dare una versione edulcorata della situazione. Non dire: Guarirai, ma rassicurare Io ti aiuterò, farò il possibile, starai un po’ meglio». Dire la verità al malato, infine, è importante perché «significa riconoscere il diritto della persona a esercitare in pieno le proprie scelte, permettergli di prendere decisioni personali, per sé e per la la propria famiglia, e perché comunque a lungo andare una non verità è difficile da sostenere e lì si gioca la fiducia».

Dire la verità al malato significa riconoscere il diritto della persona a esercitare in pieno le proprie scelte

Gabriella Farina

Esplorare le paure

Diventa in questo contesto fondamentale riconoscere, accogliere e contenere l’aggressività, la rabbia e l’ansia del paziente, esorta Farina. E, al contempo, «esplorarne le paure, perché il paziente ha bisogno di parlare di esse e non della malattia. Spesso riferiscono, infatti, di “sentirsi alleggeriti dopo aver affrontato i fantasmi che si hanno dentro”. Paure di soffrire, di sentirsi solo, di perdere la propria autonomia, di perdere il lavoro e i propri cari, di morire». Il paziente è impegnato in un compito importante, continua Farina: «Deve ridisegnare le proprie aspettative sulla base della realtà. Noi dobbiamo aiutarlo a ricostruire l’oggi».

Esercitare l’ascolto

L’ascolto è cruciale perché «troppo spesso chi illudiamo di essere nella stessa stanza e di parlare la stessa lingua» spiega Simone Cheli, psicologo psicoterapeuta, docente della St. John’s University e responsabile della progettazione didattica della scuola. «Ma quel Come va? è una domanda che fa riferimento anche al vissuto soggettivo del paziente e alla quale lo stesso medico spesso non saprebbe cosa rispondere di sé, figuriamoci una persona con una diagnosi. Lo specialista deve quindi lavorare su di sé per mettersi nelle migliori condizioni di capire i pazienti che, in quanto sotto stress, non usano naturalmente le proprie capacità cognitive migliori. Il difficile è trovare un modo di posizionarsi che permetta al paziente di sentirsi bene e alla relazione di tenere anche quando la comprensione diventa più difficile».

Spesso, poi, un atteggiamento positivo di un membro dell’équipe medico-infermieristica trascina gli altri e costituisce un buon esempio che viene seguito da tutto lo staff sanitario. «C’è un trasferimento di competenze a tutto il reparto» conclude Cheli, «per questo la Scuola presta attenzione anche a come aiutare i giovani partecipanti a riportare agli altri quanto qui appreso».

A complicare le cose è il contesto sociale generale, quello extra-ospedaliero, in cui «prendersi cura dell’altro sembra diventato qualcosa di poco considerato», riflette Cavanna. «Dobbiamo ricominciare a considerare la persona che abbiamo davanti. Spesso i familiari, nel raccontare l’esperienza in hospice, mi confessano che alla fin fine è stata una esperienza positiva perché il personale si fermava a parlare e ascoltare di più. Dobbiamo davvero ridurci agli ultimi giorni di vita?».

Foto del National Cancer Institute su Unsplash

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