Famiglia
«Papà, noi figli adottivi siamo “diversi”?»
Dopo il caso di Luino ci scrive in padre adottivo: «Scegliere la parola giusta è un atto di giustizia. E io, da padre, da educatore, da uomo, ho la responsabilità di scegliere sempre le parole che salvano»

Dopo cena, Karim — tredici anni, occhi profondi, uno spirito curioso, talvolta persino arcigno, capace di scrutare il mondo con un’intensità che disarma — si è avvicinato con un’ombra negli occhi.
«Papà… ho letto che un ragazzo adottato ha ucciso suo padre. Perché dicono sempre che era “adottivo”? Vuol dire che siamo diversi? Che siamo sbagliati?»
Non avevo ancora trovato parole sufficientemente forti da sostenere il peso di quella tragedia consumatasi a Luino, dove un figlio ha consumato l’estremo tradimento verso il padre.
Un fatto già terribile di per sé, reso ancora più violento da un aggettivo che sa di marchio, di stigma: adottivo.
Elias, dodici anni, che ascoltava in silenzio, ha chiesto con la sua voce minuta, colma di pudore ma piena di significato:
«Papà… allora noi siamo meno figli? Perché non dicono mai “figlio biologico” quando succedono cose brutte?»
Mi sono fermato. Ho chiesto loro di sedersi accanto a me sul divano.
«Karim, Elias, ascoltatemi bene. Quel gesto, così crudele e incomprensibile, appartiene alla libertà — anche malata — di chi l’ha compiuto. Ma nessun aggettivo può definire un figlio. Nessuna parola può rubarvi la vostra verità.
La vostra storia non è un’etichetta, è un incontro. E l’incontro è il vero miracolo dell’essere famiglia.»
Karim mi ha guardato, cercando di decifrare ogni sfumatura.
«Ma se scrivono “adottivo” sembra che vogliano dire che chi è adottato è più pericoloso…»
Quanto dolore ho scorto nei suoi lineamenti perfetti, in quella fragilità composta che solo un figlio può mostrare quando si sente messo in discussione nel cuore più intimo.
Ho sentito in quelle parole un bisogno di discolparsi, come se già si sentisse giudicato da un mondo che non conosce la delicatezza. Ho stretto forte la sua mano, quella mano che ancora oggi, dopo anni, fatica a concedersi del tutto; perché anche il dono di una mano è una conquista lenta, che richiede tempo, fiducia, tenerezza.
«Karim, nessuno deve giustificarsi per la propria storia. Nessuno. Tu sei figlio, pienamente, radicalmente. E io sono tuo padre, Elias è tuo fratello. Non c’è un grado, non c’è una graduatoria nell’amore.»
Elias, con i suoi silenzi carichi di verità, mi ha abbracciato.

«Allora posso dire che sono solo tuo figlio?»
«Certo, amore mio. Sei mio figlio, senza “ma”, senza asterischi.»
In quel momento ho percepito quanto sia violento il potere del linguaggio quando diventa lama. La parola che dovrebbe accogliere, proteggere, spiegare, troppo spesso diventa un’arma di brutale catalogazione e di sprezzante abominio ed esclusione.
Da sociologo e da padre, credo che questa sia una delle derive più insidiose e gelatinose della nostra epoca: la tossicità comunicativa che trasforma ogni fatto in un’occasione di consumo bulimico ed emotivo, sacrificando la complessità sull’altare del “mi piace”.
Il verbo — che dovrebbe essere il ponte per comprendere, l’argine che regge la fragilità umana — diventa spesso il detonatore di paure collettive, il pretesto per reiterare brucianti stereotipi.
Chi lavora nell’informazione ha una responsabilità enorme, pedagogica prima ancora che professionale. Una responsabilità che non può essere derubricata a una scelta di stile o di marketing editoriale. È un compito educativo, un atto di resistenza etica. La parola non è mai neutra: può costruire o distruggere, può custodire o ferire, può farci sentire umani o spingerci nel buio dell’alienazione.
Eugenio Borgna parla delle parole che salvano, parole capaci di preservare la dignità e di seminare possibilità. Ed è vero: ci sono parole che diventano casa, carezza, futuro. E ci sono parole che, come vetri rotti, ci lasciano sanguinanti.
Quella sera, con Karim ed Elias abbracciati a me, ho sentito che la verità più semplice e più urgente è questa: non c’è nulla di più rivoluzionario di una parola tenera, di una parola che dice: sei figlio, sei amato, sei intero.
Ho promesso ai miei figli che continuerò a lottare per difendere la loro identità da ogni gabbia ingiusta. E che, finché avrò voce, userò parole che illuminino invece di oscurare, che uniscano invece di dividere.
Perché in fondo scegliere la parola giusta è un atto di giustizia.
E io, da padre, da educatore, da uomo, ho la responsabilità di scegliere sempre le parole che salvano.
In foto: Francesco Cosimo, Elias e Karim, i figli dell’autore di questo articolo che ce le ha gentilmente concesse
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