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Economia & Impresa sociale 

Per una buona occupazione serve una nuova impresa sociale

Domani a Roma l'incontro promosso da Vita e "Make a Change". Il presidente di Fondazione Serena: «Profit e non profit devono essere messi nella condizione di allearsi in modo proficuo e strategico per l'intera collettività».

di Alberto Fontana

In occasione dell'incontro di Roma di domani promosso da Vita e "Make a Change" sul futuro dell'impresa sociale italiana (vd dettagli nelle correlate), il presidente della Fondazione Serena, Alberto Fontana, inteviene nel dibattito con questo contributo.   

«La crisi economica che stiamo vivendo ci pone di fronte a scenari preoccupanti. Innanzitutto c’è una crisi generale delle attività d’impresa, con il conseguente aumento della disoccupazione. In secondo luogo, e forse questo è ancor più grave, il livello di povertà raggiunto in Italia ha raggiunto percentuali mai viste sin dal dopo guerra.
 Se riprendiamo brevemente i dati del “Rapporto 2010” della Commissione d’indagine sull’esclusione sociale – CIES (Roma 2010), dove si legge che nel 2009 erano quasi 8 milioni le persone in povertà relativa (è considerata povera in maniera relativa la famiglia che si colloca di almeno un 50% al di sotto della soglia costituita dalla spesa media mensile nazionale) mentre ben 1.162.000 famiglie, cioè 3.074.000 persone sono i poveri in senso “assoluto” (quelli che non si possono permettere beni e servizi indispensabili per una vita dignitosa) pari al 5,2% della popolazione. Significa che un italiano su venti è in queste condizioni, percentuale che raddoppia nel Meridione dove una famiglia su dieci si trova in queste condizioni di povertà assoluta.
 
È un dato impressionante, quasi la metà delle famiglie che si trovano in condizione di povertà assoluta, sono “famiglie di lavoratori”: non di disoccupati, cassa integrati, tagliati fuori da ciclo produttivo, ma nell’esercito crescente dei “working poors”, una categoria pressoché sconosciuta fino a un paio di decenni fa, nella deprecata età del fordismo e delle politiche keynesiane.
La crisi crescente e la trasformazione del lavoro rende quindi tutto più complicato e dinamico, con una moltiplicazione potenzialmente infinita delle diseguaglianze sociali. Siamo tutti nell’area del rischio, non esistono più posizioni privilegiate, e inoltre la collocazione in quest’ampia area della vulnerabilità si origina spesso da una situazione transitoria, ma può oggi molto facilmente e repentinamente diventare definitiva.
Il disagio crescente non è solo dibattuto negli articoli dei giornali e nelle riflessioni degli economisti, oggi, in verità lo si respira pienamente camminando per le città, si vede riflesso nelle file di negozi chiusi e nelle fabbriche in crisi, si vive sulla pelle parlando con le persone, spesso senza lavoro e deluse, per non dire costantemente arrabbiate.

E’ una condizione che il nostro paese non può accettare passivamente, proprio per questo, dobbiamo essere consapevoli che la presenza di un lavoro dignitoso per tutti è e resta la priorità assoluta di ogni politica economica, sociale e culturale.
La disoccupazione e la povertà rendono tutto più complicato e difficile, con una moltiplicazione potenzialmente infinita delle diseguaglianze sociali. Tale condizione determina inoltre un’estensione delle categorie prima conosciute delle cosiddette persone “svantaggiate”.
Tale definizione in origine, trova cittadinanza in ambito giuridico, nella legge 381/91, per indicare quelle categorie di soggetti che vivono una particolare debolezza nell’istaurare un rapporto di lavoro a causa di particolari condizioni fisiche e sociali, e quindi meritevoli di una protezione particolare da parte dell’Ente Pubblico e dalla società civile.


Se applicata tale definizione alla situazione attuale del mercato del lavoro, è evidente come ci troviamo difronte nuove aree di svantaggio, come i giovani inoccupati, gli over 50, le persone in mobilità, che, pare opportuno, oggi, rientrino di diritto nella tutela e attenzione da parte della collettività.
I dati Istat sull’occupazione in Italia confermano una controtendenza interessante nel mondo del non profit, giacché il nostro mondo all’interno del corpo produttivo, rappresenta forse l’unico organo in grado di produrre anticorpi a un sistema che pare in evidente degenerazione.  Il Terzo Settore deve accettare e far propria questa sfida perché è in grado di concentrare e creare politiche attive nel campo del lavoro.
Il Terzo Settore è in grado di raggiungere attraverso la buona occupazione nuovi soggetti e ampliare un mercato del lavoro quanto mai statico, ma questo è possibile solo attraverso una riforma puntuale delle imprese sociali, con incentivi in caso di partnership con società profit e supportate da un reale affiancamento della pubblica amministrazione nel compimento di azioni strategiche.
Il cambiamento che viviamo ci impone e ci propone la possibilità di percorrere quest’attività di riforma perché oggi il rischio assume una minore incidenza proprio per effetto della crisi.
Una riforma basata sull’Impresa Sociale, con il conseguente superamento dell’attuale assetto basato essenzialmente ed esclusivamente sulle cooperative sociali, regolata e disciplinata quindi in forma paritaria tra tutti i soggetti che oggi operano nel Terzo Settore, può essere la via per rafforzare la capacità di creare lavoro in attività di utilità sociale, creando le basi per una sostanziale uguaglianza tra le persone.
Del resto per fare attività di Impresa Sociale, la presenza di pre-requisiti che escludono finalità lucrativa e includono il patrimonio delle imprese come proprietà della collettività, garantisce equità e trasparenza, e in specifici settori strategici possono contribuire a uno sviluppo del Terzo Settore in ambiti mai raggiunti prima».
 


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