Non profit

Per una buona riforma dell’impresa sociale

A gennaio riparte il dibattito in Senato sulla Riforma dell'impresa sociale. Un contributo alla riflessione di Emanuele Cusa

di Emanuele Cusa

Nell’ultimo periodo diversi legislatori (tra cui quello italiano e quello comunitario) hanno tentato di rispondere alla crisi strutturale, la quale ci attanaglia dal 2008, proponendo anche nuovi modelli imprenditoriali.

Rimanendo alla produzione normativa italiana di quest’anno, rammento la riforma dell’impresa sociale contenuta nel disegno di legge delega di riforma del Terzo settore e la recentissima previsione delle società benefit, per non parlare dei fenomeni di nicchia disciplinati dalle leggi sull’agricoltura sociale o sulle cooperative di comunità. Collegando i predetti dati, si può arguire che il legislatore (non solo italiano) ritenga che sia possibile affrontare alcuni degli effetti negativi dell’attuale crisi anche riformando le forme giuridiche di esercizio dell’impresa.

L’idea di collegare questa crisi e i suoi effetti negativi ai modelli imprenditoriali non è bizzarra, se si riflette sul fatto che le caratteristiche di una data economia di mercato dipendono anche dai profili strutturali e funzionali degli enti imprenditoriali che in esso concorrono. Anzi, qualcuno potrebbe addirittura affermare che il prevalere di certe forme imprenditoriali a scapito di altre sia una delle cause dell’attuale aumento delle diseguaglianze sociali.

Preconcetti e confusione nel disciplinare l’impresa sociale.

Non è facile per il legislatore fissare i presupposti normativi che dovrebbero caratterizzare le nuove forme imprenditoriali capaci sia di rendere meno diseguali noi italiani, sia di rendere più inclusiva la nostra comunità nazionale. Tale difficoltà è accresciuta da un’inesatta comprensione del fenomeno che si vuole regolare giuridicamente. In effetti, mentre le società lucrative (certamente preponderanti numericamente ed economicamente nel mercato italiano ed europeo) sono ampiamente studiate e le loro caratteristiche sono pacificamente condivise, anche tra gli operatori, invece le altre forme di enti imprenditoriali sono poco studiate e, comunque, sono osservate spesso con occhiali ideologici o con approcci manichei.

In ogni caso, un ammodernamento delle forme di impresa privata diverse dalle società lucrative non è facilitato dall’ordinamento vigente, il quale si è limitato ad affastellare, dal 1991 (anno in cui è stata approvata la disciplina delle cooperative sociali) ad oggi, una serie disorganica di provvedimenti. Dunque, è giunto il momento di razionalizzare la relativa disciplina, anche abrogandone una parte, partendo dalle fattispecie civilistiche per poi passare a quelle tributaristiche.

I principi costituzionali.

Per dipanare la matassa della disciplina delle imprese sociali occorre ritornare ai principi costituzionali. Il diritto dei modelli organizzativi delle imprese non è infatti una disciplina soltanto tecnica e apolitica, dovendosi collocare questa branca del diritto all’interno dei principi costituzionali, oggi da rinvenire, per il giurista italiano, non solo nella Costituzione italiana, ma anche nei due trattati che fondano l’Unione europea.

Non basta allora analizzare e poi concepire il diritto dei modelli imprenditoriali, verificando principalmente se negli enti imprenditoriali vi sia un equilibrato rapporto tra rischio e potere finalizzato ad avere una gestione efficiente ed efficace delle attività economiche, ma occorre anche domandarsi come tali enti possano diventare luoghi di inclusione sociale e/o di esercizio di attività di utilità sociale.

La riforma dell’impresa sociale e, più ampliamente, del Terzo settore potrebbe pertanto essere finalmente l’occasione per offrire ai privati forme organizzative adatte ad attuare il principio costituzionale (europeo e italiano) di sussidiarietà orizzontale, principio qui inteso nel senso che, nella produzione in modo economico di beni e servizi di utilità sociale, il potere pubblico non deve fare ciò che possono fare i privati.

D’altra parte, in diversi Paesi dell’Unione europea, tra cui l’Italia, si assiste a un arretramento del welfare pubblico e a un costante e progressivo invecchiamento della popolazione. Sicché è quanto mai urgente costruire su base solide un welfare privato non a scopo di lucro, incardinato sulle imprese sociali, evitandosi così che, a fronte di una crescente domanda di servizi, non vi sia un’adeguata e correlata offerta, accessibile all’intera popolazione. Quindi, le imprese sociali potrebbero esercitare attività di utilità sociale (ove possibile, facendo entrare nel mercato del lavoro le persone svantaggiate) a beneficio non solo del Primo settore (grazie anche a specifiche regole in materia di appalti e di concessioni, suggerite dalla stessa Unione europea), ma anche del Secondo settore (ad esempio, migliorando il welfare aziendale delle società lucrative e, conseguentemente, il benessere dei loro lavoratori).

Il supporto pubblico all’impresa sociale.

Studiando il diritto della concorrenza nell’Unione europea, sono giunto alla conclusione che occorra favorire la capacità competitiva delle forme imprenditoriali che più siano in sinergia vuoi con gli obiettivi costitutivi dell’Unione europea, vuoi con i principi costituzionali degli Stati membri; tra queste forme vanno annoverate certamente le imprese sociali riformande.

La concorrenza tra imprese, infatti, è un bene non assoluto, ma strumentale: strumentale al fine che il maggior numero possibile di cittadini stia meglio. I modelli imprenditoriali non esclusivamente lucrativi (tra cui spicca quantitativamente, almeno oggi, in Italia e in Europa, quello cooperativo) meritano una specifica promozione pubblica per almeno quattro ragioni.

Prima ragione: se l’economia comunitaria deve tendere alla piena occupazione, si dovrebbero preferire (nei settori economici ove sia possibile) modelli di impresa a più alta intensità di lavoro (senza che ciò pregiudichi l’innovazione dei processi produttivi).

Seconda ragione: se la democrazia economica rafforza e rende più stabile la democrazia politica, le forme democratiche di esercizio dell’impresa dovrebbero essere favorite.

Terza ragione: se si danneggia l’impresa adottando perlopiù scelte gestorie di breve periodo, occorre agevolare le imprese la cui struttura proprietaria premi (o comunque non disincentivi) le scelte gestorie di lungo periodo.

Quarta ragione: se cresce la diseguaglianza tra ricchi e poveri, occorre premiare i modelli imprenditoriali capaci di migliorare la distribuzione della ricchezza nel momento in cui essa viene prodotta.

A mio parere, l’auspicato intervento promozionale deve produrre diritto capace di rispondere a tre esigenze.

Prima esigenza: delineare con sufficiente chiarezza e sintesi il regime organizzativo dei modelli imprenditoriali diversi dalle società lucrative; in tal modo si eviteranno inutili moltiplicazioni di modelli, si offrirà agli imprenditori un completo insieme di regole per ciascun modello organizzativo (così evitando a loro eccessivi costi transattivi), si ritornerà a dare a ciascun modello imprenditoriale un’effettiva capacità segnaletica verso gli operatori e i pubblici poteri.

Seconda esigenza: concepire regole che, da un lato, equiparino gli imprenditori nell’agone economico e, dall’altro lato, favoriscano le sole forme imprenditoriali che facilitino l’attuazione di un’economia sociale di mercato, ora tratteggiata nel terzo paragrafo dell’articolo 3 del trattato sull’Unione europea.

Terza e ultima esigenza: immaginare nuovi controlli (efficaci e poco costosi per il contribuente), eseguiti anche da enti di diritto privato, controlli che garantiscano l’allocazione delle risorse pubbliche a beneficio soltanto degli imprenditori meritevoli di promozione ai sensi dei principi costituzionali.

Il presente scritto costituisce l’introduzione di Emanuele Cusa, docente di Diritto Commerciale Università degli studi di Milano – Bicocca (presentata a Milano il 14 dicembre 2015) al convegno L’impresa sociale nella legge delega sul Terzo settore, organizzato dall’Università degli Studi di Milano-Bicocca.

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