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Perché ancora oggi si sente dire “ma chi è l’educatore?”

Educatori e pedagogisti hanno una complessa storia professionale e ancora oggi - nonostante i passi avanti fatti - c'è bisogno di investire per la definizione del profilo professionale e il riconoscimento della loro importanza essenziale per il welfare del nostro Paese

di Vanna Iori

Le  professioni educative hanno bisogno di maggiore riconoscimento della propria identità e dignità professionale. L’esigenza di accreditarsi professionalmente è il risultato, nel nostro Paese, di una storia complessa, costruita su stratificazioni normative di cui non sempre e non tutti sono consapevoli. Ed è proprio per questo che ho cercato di evidenziare, in un recente articolo pubblicato nel volume Le competenze professionali delle educatrici e degli educatori (Franco Angeli), l’iter che sottende la presenza degli educatori nei diversi servizi. Di dare cioè nomi e numeri alla normativa che riguarda queste professioni. Tutto questo in un mondo che sta cambiando velocemente, sul versante del lavoro, su quello educativo e sulla visione delle singole esistenze. 

L’ambito dei servizi socio-educativi (così come avviene anche in altre professioni) è oggi attraversato da un problema di troppo frequenti abbandoni, soprattutto tra i più giovani, che nascono dalle specificità del ruolo stesso degli educatori: un lavoro impegnativo, reso più gravoso in certi contesti dalle condizioni legate a turni pesanti, scarso personale, retribuzione inadeguata, insufficiente impegno contrattuale per tutelare i diritti di questi lavoratori. Molti problemi che esistevano da tempo sono stati poi resi più evidenti durante il periodo della pandemia e nella mutata percezione professionale che connota la differenza generazionale. Da qui la necessità di un investimento maggiore sulla ricerca condivisa e di un’analisi approfondita su questa categoria fragile e frammentata che, nonostante le nuove qualificazioni culturali, è ancora poco definita nel profilo professionale e poco riconosciuta nella sua importanza essenziale per il welfare del nostro paese. 

C’è necessità di un investimento maggiore sulla ricerca condivisa e di un’analisi approfondita su questa categoria fragile e frammentata che, nonostante le nuove qualificazioni culturali, è ancora poco definita nel profilo professionale e poco riconosciuta nella sua importanza essenziale per il welfare del nostro Paese

Vanna Iori

Per fornire servizi qualificati da alte prestazioni, la Pubblica Amministrazione o le cooperative sociali non possono fare gare al massimo ribasso e rendere poco attraente il lavoro educativo. Dunque è importante ricominciare ancora a dare una forma definita a questo percorso di scarsa identità per una professione rimasta troppo a lungo nell’ombra su più fronti.

Poiché educatori non ci si improvvisa, occorre la valorizzazione delle competenze scientifiche e professionali per far uscire dall’ombra il lavoro prezioso, spesso non riconosciuto o non sufficientemente apprezzato, e fare chiarezza sulle competenze di una professione ancora vaga e troppo poco riconosciuta, che fino agli anni Sessanta era presente solo in educandati, collegi, opere pie, in funzione accuditiva, senza solidi presupposti scientifici e fondamenti epistemologici. Questa chiarificazione era l’obiettivo quando depositai la proposta di legge originaria C 2656 con il titolo “Disciplina delle professioni di educatore e di pedagogista”. Un obiettivo importante, perché la scarsa preparazione produce comportamenti inadeguati e persino deleteri in tutti gli ambiti educativi, sociali e sanitari dove è invece sempre più necessario un alto profilo professionale. 

Finalmente sembrava possibile mettere ordine alla profonda incertezza identitaria delle figure professionali degli educatori e dei pedagogisti. Prendeva corpo l’intento di fare chiarezza nella giungla normativa che ancora nel nostro Paese non prevedeva una definizione univoca delle professioni di educatore e di pedagogista, ma ne lasciava “incerta” l’identità e le competenze professionali in una galassia variegata e fragile di circa 200mila persone, con  una giungla di titoli, disomogenea, complessa e a volte contraddittoria nei percorsi formativi, negli ambiti occupazionali e nei riferimenti normativi, disseminata in ambiti lavorativi che comprendevano anche ingiustizie e disparità, entro una legislazione in materia che attendeva da oltre 30 anni di essere rivista e che risultava anche inadeguata ai tempi e alle modifiche sopraggiunte nella organizzazione dei servizi.

L’iter legislativo è stato alquanto travagliato e non avremmo immaginato che il percorso normativo sarebbe stato così lungo e pieno di difficoltà. Per questo ho ritenuto necessario affrontare il tema delle competenze ricostruendo, sia pure in sintesi, la faticosa storia legislativa che bene rappresenta le difficoltà nel riconoscimento delle competenze professionali.

Dobbiamo rendere giustizia a una professione rivolta a tutto l’arco della vita, a cui vengono affidati anche i soggetti fragili, anziani, disabili, per l’inclusione e la tutela dei soggetti svantaggiati. Negli asili, nelle case-famiglia, ma anche nelle carceri, e nelle strutture per la tossicodipendenza o per gli immigrati, per la crescita educativa in ambito familiare e della genitorialità; nelle attività ludiche, animative, nelle comunità territoriali così come nella formazione aziendale e nell’inserimento lavorativo. Non è possibile ancora oggi sentirsi chiedere “chi sono gli educatori?”. 

Foto di Hannah Busing su Unsplash


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