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Perché i russi occupano Chernobyl?

Piergiorgio Pescali, fisico esperto in fisica nucleare, proprio nei giorni scorsi in visita in Ucraina, prova a spiegarlo: i 2.600 chilometri quadrati di superficie, dal 1986 quasi del tutto preclusi all’uomo (in realtà decine di migliaia di persone ogni anno visitano per diversi motivi la zona), rappresentano un laboratorio unico per attività di ricerche in moltissimi campi della scienza

di Piergiorgio Pescali

Černobyl, pur con il trauma politico e sociale che ha comportato e che si trascina ancora oggi a distanza di 36 anni, continua ad essere un grande campo di ricerche e di intuizioni per la comunità scientifica mondiale. I 2.600 chilometri quadrati di superficie, dal 1986 quasi del tutto preclusi all’uomo (in realtà decine di migliaia di persone ogni anno visitano per diversi motivi la zona), rappresentano un laboratorio unico per attività di ricerche in moltissimi campi della scienza: fisici, chimici, biologi, zoologi, medici e molti altri rappresentanti di diverse discipline scientifiche continuano a monitorare con estrema attenzione i cambiamenti in atto nell’Area di esclusione.

Il mantenimento dello status quo dell’intera regione contaminata non è solo una prerogativa necessaria per evitare che le radiazioni residue presenti nel terreno vengano esportate verso regioni abitate, ma anche per continuare a verificare come la Natura riesca contrastare e riparare i danni causati dall’uomo in un ambiente neutro e quasi non intaccato.

È anche per questa ragione che molti rappresentanti della scienza hanno espresso preoccupazione per un eventuale scoppio di un conflitto nella zona. Una guerra che, oltre ad essere una sciagura per l’uomo, lo sarà anche per le ricerche in atto nell’Area di esclusione. Lo sconvolgimento topografico del terreno che conseguirebbe ad una avanzata militare, la fuga di animali che da decenni hanno fatto di quella zona il loro habitat, la distruzione degli hotspot in cui si concentrano i radioisotopi la cui dislocazione geografica oggi permette a centinaia di persone di vivere in zone relativamente sicure anche all’interno delle aree contaminate, interromperebbe quella lunga serie di raccolta di dati e di informazioni che continua ininterrottamente dall’incidente causato dallo scoppio del reattore numero 4 della centrale nucleare Vladimir Lenin. Tutto questo è sicuramente secondario alla perdita di vite umane ed ai dissesti politici ed economici che una guerra comporta, ma i risultati sino ad oggi ottenuti da queste ricerche nell’Area ad esclusione hanno loro stessi contribuito a salvare migliaia di altre vite umane e altre ne salveranno in futuro.

Recentemente, ad esempio, uno studio pubblicato su Science condotto da un team comprendente una quarantina di scienziati su un campione di 130 bambini nati tra il 1987 e il 2002 da genitori esposti a forti dosi di radiazioni durante l’incidente del 1986, non ha evidenziato mutazioni genetiche che invece si credeva si trasmettessero per via generazionale. Ciò non significa che non vi possano essere mutazioni, ma esse sono più rare di quanto sino ad oggi si potesse pensare. Questo studio, il più ampio e preciso sino ad oggi condotto in questo campo, potrebbe aprire strade a nuovi campi di ricerca e di trattamento verso pazienti colpiti da radiazioni, ma ha mostrato anche quanto avanzati siano gli studi sul DNA e sulla lotta contro il cancro anche grazie ai continui monitoraggi effettuate sulle vittime dell’esplosione del reattore di Černobyl.

Per tre decenni gli scienziati hanno installato telecamere a circuito chiuso, fototrappole per seguire i movimenti della fauna locale, hanno seguito le sinusoidi dei livelli di radioattività nelle zone anche più pericolose, come la Foresta rossa, che ospita uno dei terreni più contaminati dell’area di Černobyl.

Sono stati fatti anche esperimenti di ripopolamento, come quello, ormai famoso, dei cavalli di Przewalski, una specie equina nativa degli altipiani mongoli e quasi estinta. Nel 1998 alcuni zoologi hanno liberato trenta esemplari lasciandoli liberi di pascolare nella zona con l’intento di limitare il pericolo di incendi naturali: oggi se ne contano una sessantina di unità e nessuno di loro sembra abbia subito mutazioni genetiche.

Una guerra, o anche un improvviso aumento della presenza umana, avrebbe conseguenze dirette sulla flora e sulla fauna, entrambe ormai abituate ad abitare in un ambiente pressoché incontaminato. E anche sulle persone che vivono a lavorano a Černobyl.

A poche centinaia di metri dal nuovo sarcofago che protegge ciò che resta del reattore numero 4 esploso nel 1986, il dosimetro segna una radioattività di 0,7 microSievert per ora, pari a 6 milliSievert all’anno; una dose simile, se non più bassa, a quella che si assorbe in una città del Centro Italia, dove il terreno tufaceo innalza la radioattività naturale. La vita qui potrebbe quindi procedere senza grossi pericoli, ma spostandoci solo di qualche chilometro ed entrando nell’hotspot della Foresta Rossa, il display mostra un livello di 40 microSievert per ora, pari a 350 milliSievert annui, ben oltre i 20 mSv annui fissati come limite per chi lavora in una centrale nucleare. Appare dunque chiaro che liberare una tale quantità di radioisotopi e lasciarli ricadere con un nuovo fallout trasportato dai venti, obbliga a monitorare di nuovo l’intera area, a ridisegnare le mappe e le strade su cui oggi si fa affidamento per spostarsi all’interno dell’Area di esclusione, traslocare centinaia di samosely e migliaia di profughi interni che si sono stanziati a ridosso o all’interno della zona contaminata e valutare ex novo le procedure di sicurezza sia per chi opera nella centrale nucleare, sia per chi, scienziati o turisti, arrivano a visitare l’area.

Non è solo una questione di soldi e di tempo, ma è anche una procedura obbligata che rischia di interrompere per diversi mesi, se non anni, ogni ricerca in atto e vanificare quelle sino ad oggi condotte.

L'articolo è stato pubblicato da Prismamagazine

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