Volontariato
Pezzotta: mio padre, militare e Internato
25 aprile. Il segretario Cisl racconta:"Non lho mai conosciuto: ma da lui ho imparato tanto. Anche che la Resistenza non fu una sola" (di Chiara Sirna)
di Redazione
Con un padre morto in campo di concentramento per essersi rifiutato di arruolarsi tra le fila fasciste di Salò, una madre ?resistente? nell?animo e uno zio partigiano, il segretario della Cisl, Savino Pezzotta la libertà ce l?ha scritta nel dna. E se la Storia dimentica, lui al contrario la Resistenza ?bianca? dei 600mila soldati italiani che dopo l?armistizio del 43 si trovarono internati in Germania e costretti ai lavori forzati nei lager nazisti, continua a ricordarla. Anche perché l?ha vissuta sulla propria pelle.
Vita: Che idea si è fatto di suo padre?
Savino Pezzotta: Non l?ho mai conosciuto. Quando è morto in campo di concentramento avevo sei mesi. Era un uomo normale, anzi dalle fotografie direi un bell?uomo. Un contadino, come tutti dalle mie parti e un amante della caccia.
Vita: Quando è partito per il fronte?
Pezzotta: è partito presto, all?inizio della guerra. Ha fatto tutta la campagna russa. Fu tra gli alpini che sfondarono Nikolajewka. Poi andò al Brennero e lì, come tutti gli altri, finì deportato in Germania. Morì di stenti in un lager a 29 anni.
Vita: Riusciva a mantenere i contatti con casa durante la prigionia?
Pezzotta: Pochissimo. Ci sono sì e no due o tre lettere , sempre consegnate dalla Croce Rossa.
Vita: Le ha mai lette?
Pezzotta: Sì, ma sono più che altro di saluti, cose che scriveva a mia madre, appartengono a lei?
Vita: La tragedia che avete vissuto in famiglia come vi ha cambiati?
Pezzotta: La mia famiglia ha sempre avuto una cultura antifascista. Mio zio, Giovanni Algeri, è stato partigiano nelle brigate Garibaldi. Mia madre l?ha tenuto nascosto per un lungo periodo quando già era vedova aiutandolo a mandare messaggi, nascondere le armi. Ricordo che le mie due zie vennero catturate dalla Guardia repubblicana e portate in caserma come ostaggio per far costituire mio zio partigiano e mia madre riuscì a riportarsele a casa.
Vita: L?orrore vissuto da suo padre l?ha portata ad avvicinarsi all?impegno civile?
Pezzotta: No, non solo quello. Non farei questa scissione. è la storia della mia famiglia che mi ha portato ad avere un amore sviscerato per la libertà. Perché la libertà viene prima di tutto. Anche prima di essere uomo libero. Mia madre diceva che non bisogna mai piegarsi e stare sempre retti, anche quando costa fatica. è questa ricerca dell?essere libero e dello stare in piedi che mi ha portato all?impegno. E poi la necessità: io sono andato a lavorare presto, quando le condizioni di dipendenza non erano molto libere. E uno come me, educato alla dimensione della libertà non poteva far altro che reagire per uscire dalle difficoltà, unirsi agli altri, organizzarsi.
Vita: Oggi come la definirebbe la libertà?
Pezzotta: Innanzitutto non è una cosa individuale. Quando si inizia a ragionare in termini di ?mia? o ?tua? vuol dire che qualche germe malato è pronto a insidiarsi. La vera libertà non è mai fatta di opportunismi, ma di responsabilità: dev?essere di tutti e va inseguita. Essere liberi vuol dire riscoprire il gusto di essere impegnati per gli altri. E gli Imi (l?acronimo che identifica i militari italiani internati) lo furono. Di fronte alla possibilità di tornare in Italia e avere salva la vita risposero con il no.
Vita: Perché secondo lei la vicenda degli militari italiani internati è stata così sottaciuta?
Pezzotta: Per tantissime ragioni. Per pregiudizi ideologici. Si è mistificata la realtà come se l?unica resistenza da ricordare fosse quella armata. E invece la vera resistenza è qualcosa di molto più plurale. Il rifiuto di aderire alla Repubblica sociale italiana di migliaia di militari è stato d?apporto allo spirito resistenziale. Subito dopo la guerra sono state sottaciute le esperienze degli Imi. Oggi fortunatamente vengono ricordate.
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