Non profit
Presto lo spumante bio, ma che fatica guadagnare con le produzioni tipiche
L'azienda Terra Musa di Venezia
di Redazione

Convertirsi alla produzione biologica richiede soprattutto una qualità: la pazienza. Lo sanno bene alla Terra Musa, un’azienda vinicola familiare di Pramaggiore, in provincia di Venezia (nella foto i titolari Moreno Musaragno e sua moglie Paola), che quest’anno parteciperà per la sesta volta alla Biofach (ne parliamo a pagina 2). Nata nel 1972, Terra Musa ha scelto di passare al “tutto bio” nel 1999. «All’inizio proporre il vino biologico è stato molto difficile», ricorda Barbara Gaiarin, responsabile per i clienti esteri di Terra Musa. «Non c’era una conoscenza del prodotto bio e tutti pensavano che fosse un vino di qualità inferiore». Non solo, ma convertirsi significa anche accettare nuovi e più rigorosi paletti: l’anidride solforosa, ad esempio, va drasticamente ridotta, i pesticidi chimici evitati. Ciò significa non solo una modifica dei modi di produzione, ma anche un aumento dei costi: mentre gli agenti chimici usati per proteggere le piante restano efficaci anche venti giorni, le alternative “bio”, cioè il rame e lo zolfo, vengono spazzate via anche da una breve pioggia, per cui vanno riapplicate in continuazione. Il che si traduce in più spese per materiali, personale e gasolio per i trattori. Sebbene il divario rispetto ai metodi convenzionali si stia riducendo, la produzione di vini da uve biologiche resta ancora oggi più dispendiosa. Soprattutto all’inizio: durante la fase di conversione, che dura tre anni, le aziende applicano di fatto alla lettera le regole del biologico, ma non possono vendere i propri prodotti col certificato bio. Terra Musa, ad esempio, ha ottenuto la certificazione dell’Istituto per la certificazione etica e ambientale nel 2001. E, da allora, i suoi prodotti sono sottoposti a continui controlli per verificare l’aderenza ai princìpi. «È un impegno molto più gravoso rispetto alla norma», riassume la Gaiarin. È per questo, continua, che chi passa al bio lo fa perché ci crede. «Si tratta di una filosofia di vita: noi lo abbiamo fatto per dare una mano all’ambiente, per salvaguardare la tipicità dei prodotti e del suolo da cui nascono e per mantenere un equilibrio tra il lavoro e la terra che lo rende possibile». Chi punta a rapidi vantaggi commerciali, invece, prima o poi torna indietro.
Il successo, del resto, ha i suoi tempi. Terra Musa ha iniziato a notare una svolta solo negli ultimi cinque anni, parallelamente all’aumento del grado di conoscenza del biologico, specie all’estero («su questo in Italia siamo ancora un po’ indietro», nota la Gaiarin). Nel frattempo il biologico si è trasformato in una marcia in più rispetto alla concorrenza: «Ci siamo già trovati davanti dei clienti che, a parità di qualità e prezzo, preferivano il nostro vino rispetto a un altro perché il nostro era bio».
Oggi Terra Musa esporta l’80% della produzione, specie verso Stati Uniti, Giappone, Germania e Nord Europa. Ed entro fine anno dovrebbe iniziare a produrre dai suoi 25 ettari, accanto ai locali vini tradizionali come il pinot grigio o il cabernet franc, anche i primi spumanti bio. [A.A.]
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