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Medio Oriente

Quell’empatia che manca verso i giovani del rave

Milena Santerini, pedagogista interculturale della Cattolica e già coordinatrice nazionale della lotta all'antisemitismo dei governi Conte e Draghi, vede «molti giovani in Italia e in Europa, che non hanno un atteggiamento di empatia verso le vittime dell’attacco di Hamas, ad esempio verso quei 200 ragazzi (uguali ai nostri, che amavano la stessa musica dei nostri), uccisi durante il rave party, nel deserto». E spiega che se non si solidarizza con le vittime, il contagio della guerra prevale

di Ilaria Dioguardi

«Le vittime di questi primi quattro giorni di guerra sono soprattutto civili, mi preoccupa e mi spaventa che i giovani non abbiano empatia verso alcune di loro. Ci mettiamo a cercare le colpe, a ricostruire un circolo vizioso di violenza, di vendetta. Si pagano delle politiche di esclusione, quando si avrebbe bisogno di convivenza e di quotidiano confronto. Questa è una lezione anche per noi. In questo momento dobbiamo fare un discorso fermo della condanna della violenza e basta».

Santerini, lei conosce delle esperienze in Medio Oriente di dialogo interreligioso e mediazione, oltre al The Rossing Center for Education and Dialogue?

L’esperienza di riferimento è ancora il villaggio Neve Shalom, tra le più antiche. È una delle più vecchie esperienze di convivenza tra ebrei e palestinesi, con un riverbero anche sulla società. Ci sono tante altre esperienze di questo tipo, come appunto il The Rossing Center for Education and Dialogue che vengono, purtroppo, spesso travolte dai conflitti. Si tratta di iniziative che coinvolgono persone che già sono impegnate in questo senso. Ovviamente quello che occorre, invece, è una presenza là dove ci sono più pericoli. Quello che noto è una separazione crescente che impedisce di capirsi, di frequentarsi. È una grandissima responsabilità quella dei politici nel creare una polarizzazione, un’estremizzazione delle posizioni che impedisce il dialogo.

Ci spieghi meglio.

Tutti gli eventi politici e la progressiva polarizzazione avvenuta nel mondo e anche in Israele hanno fatto sì che la convivenza fosse ulteriormente minata. Il dialogo ha bisogno di vicinanza, di confronto, di obiettivi comuni. Ha preso piede negli ultimi anni la cultura della separazione nel Paese, che vuol dire: scuole separate, non avere vicino i nemici (servirebbe a capire che non sono nemici), separazione anche per quanto riguarda gli aspetti linguistici. Si pagano delle politiche di esclusione, quando si avrebbe bisogno di convivenza e di quotidiano confronto. Questa è una lezione anche per noi.

Ci sono delle iniziative che possono aiutare a recuperare il dialogo e la riconciliazione tra i due popoli, israeliano e palestinese?

Le iniziative di riconciliazione devono essere efficaci, credibili, non solo teoriche o “sulla carta”. Funzionano molto le iniziative di dialogo Parents circle, che vengono da chi è stato coinvolto nel terrorismo e nelle guerre. Sono molto efficaci perché vengono da persone che hanno avuto figli, genitori, mogli, mariti uccisi dal terrorismo, da entrambe le parti, che quindi hanno pagato di persona. Sono credibili perché il discorso di dialogo e riconciliazione è fatto da loro, nella prospettiva della “giustizia riparativa”, di chi non vuole alimentare il percorso di vendetta ma sceglie la strada del perdono e della riconciliazione. Il discorso del dialogo non è generale, fatto in astratto, ma da persone che hanno sofferto personalmente per la violenza in quei territori. Non sono così sicura che il problema sia solo la conoscenza reciproca.

Quali sono, a suo avviso, gli altri problemi?

Vedo che molte delle esperienze di dialogo sono impostate sulla conoscenza dell’altro, sul voler capire come funziona, cosa fa.  È importante, ma non è sufficiente. Non ci manca la conoscenza dell’altro, manca la simpatia verso l’altro, il mettersi nei suoi panni.

In questi primi giorni di guerra, quali sono le sue impressioni sulle reazioni in Italia, in Europa?

Vedo che molti giovani in Italia, in Europa non hanno un atteggiamento di empatia verso le vittime dell’attacco di Hamas, ad esempio verso quei più di duecento ragazzi (uguali ai nostri, che amavano la stessa musica dei nostri) uccisi durante il rave party, nel deserto. Molti ragazzi qui non hanno un atteggiamento di empatia nei loro confronti perché li accusano di essere parte di un sistema di discriminazione e esclusione verso i palestinesi. Questo mi spaventa molto e mi preoccupa perché le vittime in Medio Oriente sono soprattutto civili. Quello che sta succedendo dovrebbe spingerci ancor di più a dire che ciò succede quando non si parla, quando c’è ingiustizia, quando c’è conflitto. Anche la comunità internazionale non si è occupata di dire quello che succede, di stare dalla parte dei civili uccisi senza se e senza ma. Ci mettiamo a cercare le colpe, a ricostruire un circolo vizioso, di violenza, di vendetta. Non è casuale che questa liberazione di violenza sia influenzata dal punto di vista internazionale da tutte queste guerre. La guerra è facilmente sdoganata. Siamo molto suscettibili e sensibili alla liberazione della violenza: se viene liberata in qualche parte del mondo, ci sentiamo autorizzati a pensare che sia normale liberarla anche in altre parti. È terribile. Il concetto è che la guerra è contagiosa.

Ci sono iniziative in Italia che puntano all’importanza del dialogo, dell’empatia e alla costruzione di uno spirito di pace?

Ce ne sono tante, molte a livello locale. Ci sono la Comunità di Sant’Egidio, l’organizzazione Rondine, i gruppi per la pace. Rondine è un’iniziativa locale, con un forte significato simbolico: nel piccolo rappresenta quella che dovrebbe essere la vita. Sant’Egidio rappresenta l’azione di pace nel quotidiano, nelle periferie, con gli immigrati. Sono azioni che sembrano piccole ma hanno un riverbero, sono simbolicamente quello che possiamo costruire ovunque. Abbiamo ben chiaro che non è altro da noi quello che succede in altre parti del mondo, che la costruzione di uno spirito di pace si fa attraverso le persone ma anche smontando i conflitti qui da noi. Penso agli immigrati, all’Islam, a tutti i conflitti piccoli e grandi che si creano anche dove in questo momento non c’è la guerra, ma mille piccole “guerre” quotidiane. I discorsi relativi all’importanza della comprensione e del confronto sono fondamentali anche in luoghi in cui c’è la pace. Ci sarà un momento anche per giudicare le politiche di Israele, evidentemente sbagliate. In questo momento dobbiamo fare un discorso fermo della condanna della violenza e basta. Noto che potrebbe crescere l’antisemitismo anche qui da noi. Non solo la violenza è contagiosa, ma anche l’atteggiamento conflittuale è contagioso. Penso anche all’odio on line, agli scatenamenti di odio con le parole, che preludono una violenza anche fisica.

Nella foto di apertura di Victor R. Caivano per Associated Press/LaPresse manifestazioni di solidarietà con Israele a Buenos Aires.

La foto di Milena Santerini è tratta dal video della conferenza “L’etica ai tempi dell’odio” all’interno della rassegna Gariwo NetWeek 2022 .


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