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Quell’esame inutile sui saperi deboli

La nuova prova è in vigore da tre anni e ancora non convince. A partire da quell'angoscia che provoca agli studenti per poi esaurirsi in una pura formalità...

di Tiziano Tussi

Le elezioni politiche sono terminate e il raggruppamento di centrodestra le ha vinte anche proponendo agli elettori un ripensamento sulle innovazioni che i ministri della Pubblica istruzione del centrosinistra, negli ultimi anni, avevano apportato in copiosa quantità. Ma evidentemente vi sono alcune riforme che, almeno per mancanza di tempo, non possono essere cassate né riviste. Una di queste è il nuovo esame di Stato introdotto da tre anni scolastici, compreso quello corrente, e che ha apportato non pochi cambiamenti per il suo espletamento. Prima di questa nuova formula il precedente e ultimo ostacolo sulla strada del diploma era da tempo stato introdotto in via sperimentale, a partire dal 1969, ed era ormai stato sottoposto a critiche da ogni lato. La sua tolleranza nei confronti degli studenti – che in sostanza erano quasi tutti promossi durante tale atto – aveva fatto gridare allo scandalo numerosi commentatori. Ed ecco finalmente che il ministro della Pubblica istruzione Luigi Berlinguer aveva elaborato una nuova formula, che poi il suo successore, Tullio De Mauro, ha lasciato inalterata. L’aspetto più significativo è stato la reintroduzione di quasi tutte le materie del curricolo all’esame finale, salvo quelle non coperte dai commissari, che sono di solito sei, ma che diventano otto negli indirizzi sperimentali, più il presidente di commissione. Altre innovazioni sono state: più prove scritte, tre al posto di due e un colloquio finale che dovrebbe coprire l’intero arco di studio proposto. E ancora: un sistema di valutazione in centesimi che si basa su trance di riferimento molto rigide. Venti punti, al massimo, per i risultati del corso di studio, quindici a ogni esame scritto, e trentacinque per l’orale, sempre al massimo. La somma fa cento e c’è la possibilità della lode. Ma i problemi sollevati dalla nuova impostazione si sono dimostrati molto importanti, tanto che il ministro in carica non li ha proprio presi in considerazione. Anche per l’esame di Stato si tratta perciò di una “filosofia” scolastica, che non si può scalfire perché si correrebbe il pericolo di farla naufragare totalmente. Il risultato è comunque un forte aumento dell’angoscia per gli studenti: questi si vedono infatti prospettare una prova-setaccio universale per la loro formazione scolastica, per la quale molti di loro non si sentono né pronti né preparati. Durante tutto il corso dei loro studi, infatti, molti di loro sono stati vezzeggiati e protetti familisticamente dai loro insegnanti. Si è pensato a una scuola ritagliata su ogni studente – così dice il senso delle ultime riforme ministeriali. I “saperi” si vogliono ridotti all’osso, si parla di nodi problematici di fondo, di informare e non di formare, di dichiarare le capacità di ognuno e non di valutare, di misurare la scuola su ogni singola capacità, qualsiasi essa sia. Tutti quanti sono ammessi, d’ufficio, all’esame di Stato. E poi in quel momento si ha la pretesa di operare una seria valutazione, per di più con parametri nazionali, unitari, alla luce di diversità scolastiche che si sono favorite per tutto il resto del curricolo scolastico. Ciò comporta un’incapacità strutturale degli studenti ad affrontare l’ultima prova. Il paradosso continua al momento della valutazione, rigido nel meccanismo – se si perde un punto difficilmente lo si può recuperare – ma a livello interpretativo applicato con larga comprensione, per cui le bocciature sono state, in questi ultimi due anni, molto vicine a quelle della precedente formula con valutazioni molto comprensive anche in presenza di svarioni espositivi a volte eclatanti. Quindi l’angoscia della vigilia si stempera poi nella formalità di un atto inutile a valutare realmente cosa gli studenti sappiano. A cosa serve tanto spreco di energie e di denaro pubblico? E’ sperabile che la risposta non sia solo: a fare lavorate tutti gli insegnanti fino alla metà di luglio. Sarebbe veramente l’ennesima miseria a cui, per altro, la scuola in Italia ci ha purtroppo abituato.

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