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Ripensare vita e lavoro in un mo(n)do diverso

Ricerca e sviluppo, coraggio nelle scelte organizzative, investimenti nella progettazione di nuove catene di valore con particolare attenzione alle risorse locali, attenzione alle risorse latenti imprigionate nelle sacche sempre più ampie della popolazione: sono questi i passaggi essenziali per chi vuole attraversare questa tempesta

di Pietro Piro

Della chiusura

Tra i ricordi più dolorosi legati all'esperienza del lockdown causato dalla pandemia da Covid-19 c'è la chiusura totale del centro di formazione che ospita il mio piccolo ufficio. Prima del lockdown era un luogo rumoroso, carico di vita, di discorsi, di presenze. Studenti, docenti, colleghi stabili e altri in visita. Ma anche riunioni, seminari, colloqui d'orientamento, incontri formali e informali. Era quello che si potrebbe definire "un punto di riferimento" per tante persone.

Adesso abbiamo "aperto" ma non è come prima. C'è qualcosa di profondamente diverso nell'aria. Le presenze sono limitate, gli incontri diradati. Le severe regole imposte dai protocolli di sicurezza impongono distanza. Si cerca, in qualche modo, di recuperare una quotidianità che è sostanzialmente stata stravolta. Tutto è come prima, gli uffici sono tutti al loro posto, non è cambiato nulla nelle strutture fisiche dei luoghi che abitiamo. Eppure, sembra che siano state investite da un onda invisibile che ne ha cambiato la natura profonda.

Quest'onda si chiama paura. Paura dei contatti, paura di un colpo di tosse, paura di non rispettare le regole o di una mascherina che si strappa. Paura – terribile – di poter perdere anche questo posto di lavoro. Abitiamo gli spazi della nostra quotidianità con un ospite inatteso che ci inquieta ad ogni respiro. Difficile riprendere il filo dei discorsi, difficile ricostruire il senso delle piccole azioni quotidiane, difficile ritrovare il contatto con i colleghi.

La crisi è radicale e solo un salto qualitativo del pensiero e delle relazioni può trasformarla in opportunità. Dobbiamo sognare la Terra. Poeticamente e politicamente. Ciò presuppone anche una ridefinizione dei confini (e non solo di quelli esteriori), una ‘cartografia’ affettiva del presente, un recupero della capacità di ritrovarci intimamente connessi, operando nelle pratiche per riconsiderare immaginativamente un prima che potrebbe essere anche un dopo.

Fabrice Olivier Dubosc, Sognare la Terra ​(Exorma edizioni, 2020)

Rigidità, distanza fisica, mascherine che coprono il volto e impediscono una percezione chiara delle espressioni del viso. Tutto contribuisce a creare un clima ovattato, surreale, lento, ipnotico. Gli obiettivi sono molto incerti e le strategie per guardare al futuro molto fragili. Si naviga a vista e il ritmo della navigazione è così lento che pare star fermi. Urgente appare il bisogno di ripensare una nuova prossimità, una nuova comunità e nuovi modi di costruire il senso. Ma per farlo occorrerebbe poter smarcarsi dal trauma che abbiamo vissuto e che – a mio avviso – sta cominciando adesso a dispiegare tutta la sua potenzialità distruttiva.

Del ritorno

In questi giorni ho trovato utile leggere un piccolo volume di Martin Lindstrom, Adesso. Ripensare vita e lavoro in un mo(n)do diverso (Hoepli, Milano 2020), perché nella sua chiarezza espositiva e apparente semplicità, aiuta a fissare dei punti di riferimento:

1) La pandemia sta causando una enorme perdita di empatia;

2) Il nostro istinto primordiale di sopravvivenza ha portato al massimo livello di sovraccarico l'area cerebrale della paura (amigdala). Abbiamo paura di rimanere senza cibo, senza farmaci, di essere dimenticati e di morire da soli;

3) L'assenza di contatto fisico tra le persone diminuisce le nostre difese immunitarie;

4) Si è creato un potente "marcatore somatico" che collega malattia e incontri sociali (solo il pensiero di uscire di casa crea paura e ansia);

5) L'opinione pubblica orienta le scelte politiche in base al senso "di protezione" che riesce a trasmettere;

6) Cresce la paura dell'esclusione dalla "tribù" di appartenenza;

7) Molte abitudini profondamente radicate, intrinseche alla nostra identità e al nostro comportamento sono saltate;

8) Tenere costantemente sotto controllo il nostro comportamento ci sfinisce;

9) Aumenta l'uso smodato di cibo come strumento di consolazione;

10) Aumenta la violenza domestica;

11) Cominciamo a desiderare spasmodicamente un senso fisico di appartenenza, un desiderio di relazione umana;

12) Le imprese che vogliono sopravvivere saranno costrette a cambiamenti radicali, di concetto e di obiettivi, di strategia e di visione;

13) Elementi chiave delle nuove leadership saranno: presenza fisica, visibilità, conoscenza diretta dei problemi e delle persone con cui si lavora e incoraggiamento.

I punti di questo elenco possono essere messi tutti in discussione (farlo adesso richiederebbe scrivere un volume) ma è certo che indicano che "qualcosa è cambiato" e che occorre valutare come affrontare questo cambiamento. Noto, in generale, una tendenza a voler ritornare a un improbabile "mondo pre-pandemia", ristabilendo riti e comportamenti standardizzati. Credo sia una risposta molto comprensibile ma totalmente inefficace. Ritengo, invece, che occorre considerare questa pandemia una grande opportunità di cambiamento per provare ad azzardare formule nuove, più attente alla qualità della vita delle persone e del rapporto con l'ambiente.

Potrebbe essere d'aiuto per molte realtà sociali la preziosa analisi di Giuseppe Berta su Torino: "si deve evitare di guardare a un passato che è irripetibile e irriproducibile, ma dall'altro non si deve indugiare nella prefigurazione di un domani soltanto futuribile, che risulti improbabile e nebuloso. Meglio allora che proceda con urgenza a censire le sue risorse interne e lo stato delle sue specializzazioni per poterle dislocare in un percorso credibile di rilancio. E poi deve tornare a scommettere sul proprio saper fare e irrobustirlo con sostanziosi innesti di cultura e di conoscenza, mediante l'ausilio dello studio, della ricerca e della tecnologia […]". (A. Bagnasco-G. Berta-A. Pichierri, Chi ha fermato Torino? Una metafora per l'Italia, Einaudi 2020, pp. 82-83).

Ricerca e sviluppo, coraggio nelle scelte organizzative, investimenti nella progettazione di nuove catene di valore con particolare attenzione alle risorse locali, attenzione alle risorse latenti imprigionate nelle sacche sempre più ampie della popolazione, sono passaggi essenziali per chi vuole attraversare questa tempesta.

Paolo Venturi ha dato indicazioni chiare per il prossimo futuro (che condivido pienamente): "Spetta all'impresa sociale la responsabilità di rilanciare il protagonismo della società nella soluzione delle sfide odierne: sfide che richiedono missioni pubbliche e nuovi investimenti sociali. Sanità, transizione climatica, digitalizzazione e lotte alle diseguaglianze […] saranno un banco di prova per l'economia sociale. Progettare nuove infrastrutture sociali multi-funzionali e multi-servizi ad alto valore comunitario, stimolare nuove forme di neo-mutualismo per accelerare processi di gestione e uso delle risorse energetiche e dei beni comuni, promuovere una nuova generazione di piattaforme digitali […] fra cittadini e istituzioni, attivare reti d'impresa e filiere capaci d'integrare l'inclusione sociale nella produzione locale, promuovere percorsi di rigenerazione nelle aree più interne del Paese, dilatare lo spettro delle opportunità lavorative per i giovani rilanciando l'impresa nei settori della cultura, dell'ambiente, della cura e del turismo sociale" (P. Venturi, La crescita possibile. Comunità al centro, Corriere della Sera. Buone Notizie, p. 10).

L'Ordine Nuovo

Antonio Gramsci, sul primo numero di L’Ordine Nuovo, pubblicato il primo maggio del 1919 scriveva: «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra forza». Mi pare che queste indicazioni che provengono da un lontano passato, ritornano oggi di grandissima attualità. Istruzione, entusiasmo, organizzazione, sono assolutamente necessari per affrontare questa fase in cui ci ritroviamo in "uno scenario mondiale di non sostenibilità, di incuria e di scarsa porosità a tutto quanto sia realmente comunitario, cooperante, co-genarato, co-gestito. co-vi(d)sibile: lo Stato che si disinteressa della sua terzietà, l'assistenza pubblica che reclina, i servizi al cittadino che sono castelli kafkiani, la sanità che deve reinventarsi in temporalità ristrette per un'atavica mancanza di pianificazioni" (C. Castoro, Covideocracy. Virus, potere, media. Filosofia di una psicosi sociale, Male Edizioni 2020, p. 198).

Mi pare di poter dire che la pandemia possa essere un punto di svolta materiale, psicologico, spirituale, che come un setaccio lascerà passare solo le migliori intuizioni e capacità di gestione e innovazione.

Chi rimarrà troppo legato alla sua comfort zone rischierà di non cogliere le opportunità di cambiamento insite in questo periodo così difficile. Urge un "nuovo contratto sociale, non sedotto, non sedato, senza leviatani che occheggiano nelle brume della Storia" (Castoro). Siamo pronti a tutto questo?


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