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Cooperazione & Relazioni internazionali

Rivoluzionari? No, fanatici del Primo emendamento

L’appello a non rinnegare il principio della libertà d’espressione viene dai giornalisti indipendenti.

di Bernardo Parrella

«Andare dove c?è il silenzio. Questa è la responsabilità di un giornalista: dare voce a quelli che sono stati dimenticati, abbandonati e schiacciati dai potenti. È la ragione più importante che conosca per portare con noi penne, telecamere e microfoni dentro le nostre comunità e fuori, nel mondo più vasto». Non potrebbe essere più esplicita la posizione di Amy Goodman, animatrice dal 1996 di Democracy Now!, trasmissione quotidiana irradiata dal circuito di Pacifica Radio, oggi divenuta un vero e proprio movimento, oltre che fonte di reportage, interviste e voci di prima mano non di rado ripresi dai media mainstream. Un tour trionfale È particolarmente il caso di Democracy Now!: sono oltre 225 le stazioni che la ritrasmettono ogni giorno, incluse emittenti locali affiliate, circuiti pubblici, tv via satellite e ovviamente streaming audio-video sul web (Democracy Now!). Un fiorire di interesse e partecipazione che qualche settimana fa ha visto protagonista la stessa Amy Goodman: oltre 2mila persone si sono ritrovate a Los Angeles per festeggiare il 55esimo compleanno di Pacifica Radio e seguire la presentazione della sua opera prima, Exception to the Rulers (Hyperion). Anzi, il tour nazionale in oltre 70 città, appena conclusosi, ha sollevato parecchio entusiasmo: teatri stipati all?inverosimile, lunghe file per avere l?autografo dell?autrice sulla copia personale, da St. Louis a Chicago a Santa Fè, con punte di mille persone a New York City e in altre tappe californiane. Scritto in collaborazione con il fratello David, i cui articoli appaiono su testate quali The Nation o Mother Jones, a un mese dall?uscita il libro è entrato nelle classifiche dei best seller del New York Times, del Boston Globe e della catena di librerie indipendenti Booksense. Mentre Newsweek non ha potuto fare a meno di scrivere: «A seconda delle proprie preferenze politiche, Amy Goodman può essere una crociata, un fastidio, una matta, una minaccia, o un eroe. Ma una cosa è irrefutabile: ha coraggio». Un coraggio che l?ha portata, per esempio, a rischiare la vita per documentare il bagno di sangue dovuto alla rivolta popolare a Timor Est a fine 2001, con oltre 200mila timoresi uccisi, uno dei «peggiori genocidi del XXI secolo». Oppure, più recentemente, a seguire l?intricata vicenda di Jean Bertrand Aristide, presidente di Haiti defenestrato in quattro e quattr?otto per il volere di Usa e Francia, definendola un «rapimento e coup d?état in versione moderna». Discutere per capire Oltre a dar regolarmente voce al movimento no global e all?arcipelago non profit, a trasmettere ininterrottamente per vari giorni dopo l?11 settembre a pochi isolati da Ground zero, a offrire spazio a un dissenso anti bellico altrove censurato, con le voci di Noam Chomsky, Howard Zinn, Michael Moore e tanti altri attivisti a livello globale. Tutte vicende di cui invece i media mainstream si sono bellamente disinteressati, contribuendo non poco a creare l?attuale clima di indifferenza alle questioni politiche da parte del cittadino medio statunitense. Amy Goodman lancia accuse precise: «I grandi media hanno toccato il fondo. ?L?eccezione a chi fa le regole? dovrebbe essere il motto di ogni fonte d?informazione. Invece la disinformazione si diffonde grazie a due passaggi: il governo ?fa trapelare? un?informazione ai reporter, dopo di che fonda le proprie affermazioni proprio su quegli articoli». Come rimediare? Ampliando la portata di esperienze come quella di Democracy Now!, risponde la Goodman, e dando spazio alle voci della gente comune. «Ecco perché la gente è così affamata di informazione indipendente, e inizia a crearne di propria», insiste la Goodman, riferendosi a esperienze che abbracciano il circuito di Indymedia e l?avvio di iniziative di base in vista delle presidenziali 2004, tipo Let?s Talk America, lanciata da Utne Reader, storico mensile alternativo. Di cosa si tratta lo spiega il coordinatore, Leif Utne: «Abbiamo lanciato una serie di salotti di discussione in centinaia di case, caffè, librerie e altri luoghi, in contemporanea con eventi pubblici in parecchie città». Mettendo a fuoco il punto cruciale del corrente scenario: la partecipazione attiva e motivata. «I cambiamenti sociali nascono dalla conversazione», osserva Utne. «Immaginiamo 10mila cittadini di qualsiasi fede politica che discutono sul futuro politico. Coinvolgiamoci. Il destino della nostra democrazia dipende da ciascuno di noi». Ancor prima della scelta tra Bush e Kerry, dunque, l?appello è a coinvolgersi in prima persona, a fare informazione al di fuori di schieramenti prefissati. Insieme alla più che obbligatoria pressione nei confronti di chi manovra (e/o zittisce) le fila del discorso, che si tratti di governanti o giornalisti. Conclude Amy Goodman: «Ciascuno di noi deve premere su Kerry affinché la smetta di fare il politico, di parlare il linguaggio di Bush, e chiarisca da che parte sta sulla guerra e sull?economia. Per evitare un nuovo flop in stile Al Gore 2000 e per non dare l?ennesima delusione alle speranze di cambiamento della maggioranza condannata al silenzio».


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