Educazione

Gli Scout, l’autonomia e la tragedia di Chiara

Questa intervista era stata preparata da diversi giorni. Si sarebbe intitolata: Scout, una palestra di autonomia (anche per i genitori).La pubblicazione era stata programmata proprio per oggi perché ho scelto il tema dell’educare i figli all’autonomia, con tutta la fatica che questo comporta sia per i figli sia per i genitori, come argomento della prima puntata di Dire, fare, baciare, la nuova newsletter settimanale che firmo per VITA. Un tema urgente. Ne ero soddisfatta. Questa mattina presto, però, sul cellulare è arrivata la notizia della tragedia che nella notte ha colpito il Como 3, durante il campo a Corteno Golgi (Bs). Un albero è caduto su una tenda e Chiara, 16 anni, una guida, è morta. Scrivo queste righe mentre in auto con mio marito sto salendo a prendere i miei due figli più grandi, evacuati nella palestra del paese. Il più piccolo era al campo nello stesso comune, ma in una struttura. Ho il cuore in gola. Mi sono chiesta se togliere l'intervista e bloccare l'invio della newsletter. Ma nel metodo, nel valore dell’esperienza scout e anche nella serietà della nostra comunità capi ci credevo prima e ci credo ora. E ci crederò anche dopo, perché sono certa che sapranno accompagnare i ragazzi nel difficile dopo di una tragedia così, che lascerà il segno in tutti. Adesso è solo il momento di stringersi attorno alla famiglia di Chiara. A chi ci legge, chiedo una preghiera o un pensiero per Chiara e per la sua famiglia.

di Sara De Carli

Scout in un prato, con tenda sullo sfondo
Un campo scout (foto di Giorgio di Loreto)

Educare all’autonomia oggi è una questione cruciale. E fra tutte le realtà che si occupano di ragazzi e di educazione, gli scout sono quelli che più di tutti – da sempre – scommettono su questo percorso. Un “viaggio” di crescita per i ragazzi, ma anche per i genitori. Gli scout come nessun’altra esperienza sono una vera palestra per “lasciare andare” i figli. Finché sono lupetti, tutto fila liscio. Ma quando entrano nei “reparti” (ossia dai 12 ai 16 anni) i ragazzi sono chiamati a cimentarsi con l’impresa e con l’hike. L’impresa consiste nel darsi un obiettivo concreto e realizzarlo, in autonomia, come squadriglia: per esempio pulire dai rovi un sentiero nei boschi e restituirlo al territorio. Nell’hike invece i capi ti mettono in mano una cartina e “la squ” deve raggiungere la meta, montare la tenda, passarci la notte. Solamente il capo squadriglia ha con sé il cellulare: nessuna nuova, buona nuova. Per i genitori – anche per chi d’abitudine non sta proprio a tracciarli ogni ora con la funzione “dov’è” dello smartphone – non è facile. Due attività che acquistano senso e significato nel loro essere inserite in un percorso di crescita: non sono avvenimenti “spot” ma esperienze accompagnate e preparate.

Roberta Vincini e Francesco Scoppola sono i presidenti del Comitato nazionale di Agesci. Lei da quattro anni è dirigente scolastica, dopo 27 anni in cattedra. Lui lavora nelle istituzioni. «Sì, siamo forse gli unici a dare così tanta fiducia ai ragazzi, a “rischiare” così tanto. Ma questo avviene all’interno di un percorso che dà al bambino e al ragazzo, per step, l’opportunità di conoscersi, darsi degli obiettivi, migliorare se stesso», dicono.

Roberta Vincini, presidente del Comitato Nazionale Agesci, in uniforme scout
Roberta Vincini, presidente del Comitato Nazionale Agesci (foto di Andrea Pellegrini)

Uno dei temi educativi oggi più forti è l’infantilizzazione dei ragazzi e dei giovani, la difficoltà dei genitori a separarsi dai figli.

Roberta Vincini: Il problema esiste e questi anni lo hanno accentuato. I genitori sono molto accondiscendenti nei confronti dei figli, che non hanno lo spazio per quei gesti di ribellione, per quelle cose che in adolescenza si fanno di nascosto, ma che servono per capire cosa sia giusto o sbagliato, a misurarsi. Oggi pressoché tutto viene fatto con il placet dei genitori. Allora per andare contro – perché prima o poi devi farlo – i ragazzi alzano il livello dell’asticella dell’andare oltre. Se non ti posso sfidare nel baciarmi di nascosto dietro casa, lo faccio con esperienze più pericolose. Manca la capacità di dire alcuni no da parte dei genitori. Questo è un tema di fondo e naturalmente lo vediamo anche nello scautismo.

Oggi pressoché tutto viene fatto con il placet dei genitori. Allora per andare contro – perché prima o poi devi farlo – i ragazzi alzano il livello dell’asticella dell’andare oltre

— Roberta Vincini

Perché l’educazione all’autonomia per gli scout è tanto importante?

Roberta Vincini: Lo scautismo non punta solo a far crescere persone indipendenti e autonome: ci piace pensare che faccia crescere persone inter-indipendenti: uomini e donne che fanno un proprio percorso di “individuazione” per essere se stessi, ma che sono capaci di stare con gli altri, liberi e legati perché è il legame ci costituisce. Crescere attraverso percorsi di autoeducazione in cui l’adulto “accompagna” il processo è il cuore di tutti i metodi attivi: tale processo però trova il suo inveramento solo nella vita comunitaria. Ti offro un percorso per step che ti consente di conoscerti, darti degli obiettivi, migliorare te stesso, scoprire cosa puoi imparare a fare. Ma l’altro elemento è sempre la comunità. Non l’individualismo, non la competizione, ma il migliorare me stesso per mettermi a disposizione. Mi viene da dire che siamo forse gli unici a dare fiducia – in un percorso di autonomia – ai bambini e alle bambine, così come ai ragazzi e alle ragazze di 15/16 perché acquisiscano responsabilità: ciascuno ha il suo compito, prima impara a essere responsabile di cose, poi di persone, per essere poi in grado di scegliere di vivere la propria vita come servizio.

Francesco Scoppola: Un elemento che vorrei sottolineare è l’attualità del metodo scout. Non si tratta di essere legati a un metodo educativo in maniera cieca o consolatoria, perché semplicemente ci piace… è un metodo che ha una attualità enorme, pur di fronte a un contesto cambiato. Il metodo scout oggi, nel contesto che viviamo, è prezioso. Ragionavamo ancora in questi giorni nel Comitato nazionale dell’Agesci rispetto all’aumento delle fragilità di ragazzi e ragazze: il nostro metodo non è “la” soluzione, ma ha ancora una grandissima corrispondenza con i bisogni di ragazzi di oggi. Talvolta si dice “hai una difficoltà, vai agli scout”: non perché siamo bravi, ma perché questi percorsi sono fondamentali nella crescita.

campo scout, cerchio di ragazzi e tende
Un campo dei reparti (foto di Gianfranco Scagnetti)

E perché la natura?

Roberta Vincini: Perché a casa, dove sei protetto, non ti riesci a misurare con la realtà. In natura, se arrivi in un punto senza acqua, non c’è l’acqua. Devi avere la capacità di darti da fare per risolvere un problema essenziale per la tua vita: non così nell’onlife.

Quali fatiche incontrate oggi nell’educare all’autonomia?

Roberta Vincini: Le fatiche ci sono. Anche io peraltro sono mamma di due capi scout e come genitore so quanto è grande il bisogno di controllo che abbiamo sui figli e quanto lo scautismo ti metta alla prova come genitore… Il rapporto con le famiglie sta però nel nostro dna. Ci sono genitori convinti e altri meno convinti, i cui figli vengono perché stimolati dagli amici o dall’esperienza: ci sono genitori che portano alla comunità capi paure e insicurezze e altri che la sostengono. Per un 22-23enne è faticoso confrontarsi con genitori ansiosi, ma c’è una comunità allargata che aiuta i gruppi a vivere in modo intergenerazionale. L’intergenerazionalità è un’altra caratteristica dello scoutismo: a fine agosto del prossimo anno ci sarà un grande incontro delle comunità capi, in vista dei 50 anni, e il motto di questo incontro è proprio “Generazione di felicità”. Si cresce in autonomia anche perché c’è una generazione che ti precede e che ti mostra che è possibile, così come ce n’è un’altra a cui passare il testimone.

Francesco Scoppola, presidente del Comitato Nazionale Agesci (foto di Giacomo Bindi)

Non l’individualismo, non la competizione, ma il migliorare me stesso per mettermi a disposizione. Prima Roberta agganciava l’autonomia e la comunità. Sembra un paradosso…

Francesco Scoppola: Oggi nell’accezione comune, nell’immaginario collettivo, in politica, il tema dell’autonomia ha in sé l’idea di isolamento. Autonomia è imparare a fare le cose da solo e a farle per bene proprio perché sono per me. Da noi l’autonomia è ribaltata, è un sottotitolo del servizio. L’azione che faccio ha una componente personale ma anche una collettiva rivolta a compiere un bene che è comune: quel che faccio è per il miglioramento della comunità. Il punto di ricaduta del servizio è lo stesso punto di visuale del bene comune, che è un valore maggiore rispetto a quello che ha valore solo per me. L’autonomia non è finalizzata a saper fare una cosa, ma al fatto che tu col tuo servizio sarai di giovamento alla comunità che abiti, all’idea che sottintende l’essere insieme, un bene che passa dalle singole azioni ma che io offro al mio territorio, alle persone e alla mia comunità. Autonomia è essere capaci di pensare e agire da soli, ma in funzione degli altri: non da soli per se stessi, ma da soli per gli altri. E tutto comincia da come so fare lo zaino.

Nell’accezione comune l’autonomia ha in sé l’idea di isolamento: è imparare a fare le cose da solo e a farle bene perché sono per me. Per noi invece l’autonomia è un sottotitolo del servizio

— Francesco Scoppola

Perché lo zaino?

Roberta Vincini: Ti insegna a fare delle scelte. Autonomia e fatica di scegliere vanno a braccetto. Oggi imparare a scegliere è uno dei problemi educativi più grossi. La scelta è legata al desiderio, mentre oggi abbiamo una generazione di adolescenti definita dall’antropologo David Le Breton come la “generazione del biancore”, alle prese da un lato con la “morte del desiderio” e dall’altro con l’illusione di poter fare tutto ed essere dappertutto. Tornando ai genitori che ti lasciano fare qualsiasi esperienza… i no dei genitori ti spingono anche a scegliere.  


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