M e lo indica qualcuno sommessamente, accostandosi: «Quello è un italiano!». Una scritta d’oro, una frase affettuosa di addio, tre errori di grammatica. Sì, la lingua qui all’estero si meticcia, si intreccia con altri modi, come la vita di un migrante con altre vite. Vicino a lui è steso un pakistano, poi uno iugoslavo, ancora due italiani… Sono tutte tombe. Anzi, delle stele. Camminiamo insieme su un tappeto verde rasato, curatissimo, di un cimitero inglese poco fuori Londra. Le lapidi emergono dall’erba, semplici, belle, allineate. Nel settore più antico a volte si sono inclinate, rese grigie dal tempo o dall’acqua, con scritte poco leggibili, con date lontane come 1855. Ciononostante, una suggestione inesprimibile. Sfioriamo con il nostro passo il settore dei bambini, di un verde più tenero. E sono tante piccole stele, un angolo dell’immenso parco con qualche statua di angioletto, qualche orsacchiotto piantato nell’erba, delle girandole multicolori che fanno cantare il vento. Angolo invidiabile di paradiso.
Il nostro gruppo di emigranti avanza in questo prato tra alberi, arbusti e stele sparse a macchia, inerpicandosi verso l’alto di una collina, Forest Hill… Si dirige pregando verso il settore degli italiani. Là, vi troviamo il gusto del marmo, del decoro, qualche candela accesa, il tutto dignitoso, anche se… sgrammaticato. È una sera nuvolosa e pronta alla pioggia, una domenica qualsiasi di novembre, una comunità di emigranti italiani in un cimitero inglese. Ci accompagna un ripetere incessante «e nell’ora della nostra morte» che sa farsi per ognuno dolce invocazione. Si cammina lungo i vialetti o sull’erba evitando con cura il tratto d’erba dove sono distesi i propri cari, a ben due metri di profondità. Ma, in verità, in tutto questo verde ti sembra di contemplarli distesi sull’erba stessa, come su un prato d’estate. Ansia profonda di pace e di riposo per degli esseri umani che hanno camminato una vita intera. Incredibile incanto. Fino a qualche anno fa, è vero, anche i morti… camminavano! Ritornavano in Sicilia, in Calabria o altrove per poter riabbracciare per sempre la propria terra. Per rivivere per sé l’ultima triste festa di paese, tra fiori, commenti e preghiera. E qui la comunità aiutava con una colletta speciale tra tutti… Ormai si resta qui, nella terra che li ha accolti. Ed è questo l’amore dei nostri migranti per la loro storia. È il loro miracolo quotidiano: saper fare di una terra straniera la loro seconda patria. Il tempo ricorda che si sta costruendo insieme – migranti e gente del posto – una storia nuova, un’avventura originale e collettiva. Ricordava Charlie Chaplin: «Non troverai mai gli arcobaleni, se continui a guardare in basso!». Sì, come il nostro spazio che rinchiude, e sarebbe un vero peccato…
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