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di Redazione
La rottura della trattativa sindacale che ha portato alla giornata di sciopero del 4 aprile 2008 riporta con prepotenza sulla scena problemi antichi e risaputi, come il livello retributivo medio degli operatori della cooperazione sociale, ma ne apre anche alcuni di nuovi, come la relazione tra enti locali, cooperazione sociale e sindacato di categoria.
Anticipiamo la conclusione, così da essere chiari fin dall’inizio: il nostro sistema dovrebbe avere il coraggio di indire uno sciopero della cooperazione sociale piuttosto che subire uno sciopero dei lavoratori. Ecco perché.
La cooperazione sociale in Italia ha dimostrato più volte di essere capace di affrontare con spirito imprenditoriale le sfide che la società pone quotidianamente nel campo dei servizi alla persona: anziani, persone con disabilità, minori, ex tossicodipendenti, detenuti ed ex detenuti, extracomunitari, ma anche inserimento lavorativo di fasce deboli, politiche attive del lavoro, azioni a favore dell’ambiente e del turismo sociale, creazioni di asili nido e di scuole per l’infanzia. Tutte attività che partecipano alla costruzione del “Welfare che cambia”.
È importante ripeterci queste cose perché, da cooperatori sociali, facciamo fatica a leggere questi soggetti come controparte. Tanto per essere chiari:
– la cooperazione sociale, in quanto soggetto privato chiamato a svolgere funzione pubblica, deve agire, come e più di altre imprese, nella massima trasparenza ed efficacia, all’interno delle regole del mercato e nel pieno rispetto dei diritti dei propri soci-lavoratori e dipendenti;
– le amministrazioni locali devono cogliere questa opportunità mettendo a disposizione risorse adeguate al sostegno delle diverse azioni proposte dalla cooperazione sociale o, nel caso di gare di appalto, indicate dalle amministrazioni stesse;
– le organizzazioni sindacali, in quanto rappresentanti dei lavoratori/cittadini, devono partecipare attivamente affinché i primi due soggetti agiscano con correttezza e coerenza.
L’obiettivo è il “bene pubblico”. Vantaggio comune sono servizi adeguati e di qualità, una corretta allocazione della spesa pubblica, una efficace azione di tutela. Tutela dei cittadini/lavoratori ma anche dei diversi fruitori dei servizi. Valore aggiunto è quel capitale sociale a partecipazione diffusa dato dalla riqualificazione dei diversi territori e dall’azione congiunta verso reali processi di inclusione sociale.
La nostra esperienza milanese, che crediamo ampiamente condivisibile, ci porta a dire che:
– è controparte quella quota (anche considerevole) di imprese sociali che interpretano la cooperazione sociale come strumento, dimenticandone finalità e scopo che invece ne caratterizzano la specificità. Sono nostra controparte e da loro dobbiamo differenziarci;
– è controparte quel tipo di amministrazione pubblica che legge la cooperazione sociale come soggetto terzo a cui assegnare compiti e funzioni, ispirati esclusivamente da vincoli di bilancio e senza una visione strategica sui loro territori. Sono quelle del massimo ribasso, dell’assegnazione a pioggia di contributi, dell’incapacità di stabilire rapporti stabili di coprogettazione, di elaborare visioni strategiche di territorio che superino il mandato politico di questa o quella giunta comunale, provinciale, regionale;
– è controparte quel sindacato che non sa svolgere il proprio ruolo di ente trilaterale, portando elementi di innovazione in merito ad un mercato del lavoro complesso. Quel sindacato che si preoccupa più del numero delle tessere che di ottenere un consenso finalizzato ad azioni positive e realmente innovative. Quel sindacato che chiude gli occhi di fronte a comportamenti distorti e tratta il settore in modo indistinto, colpendo nel mucchio senza separare chi fa “buona” cooperazione sociale con chi ne utilizza impropriamente il nome.
Uno sciopero della cooperazione sociale, che si ritrovi sotto a questi contenuti, forse lo possiamo anche pensare.
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