Famiglia

Siamo tutti genitori a cui manca la terra sotto i piedi

Torniamo a parlare di Paderno Dugnano, non per parlare di Riccardo ma per parlare di noi, dei nostri figli, delle nostre famiglie “normali”. La psicoanalista Laura Pigozzi: «Facciamo un passo indietro, la nostra mission di genitori è far sopravvivere i figli senza di noi. E curiamo il rapporto tra fratelli, smettiamo di dire che i figli sono tutti uguali».

di Sara De Carli

PALLONCINI PER SALUTARE LORENZO, 12 ANNI, UCCISO DAL FRATELLO RICCARDO

Torniamo sulla strage di Paderno Dugnano. Torniamo dopo che le prime pagine dei quotidiani si sono spostate su altro. Torniamo dopo aver fatto sedimentare quel bellissimo pezzo che Vittorio Lingiardi ha scritto su la Repubblica, per dire del disagio che anche gli esperti hanno in questi casi, per ricordarci la differenza abissale che c’è tra il “comprendere” (Verstehen) e lo “spiegare” (Erklären), per riaffermare il valore del silenzio. «La comprensione è fatta di ascolto, empatia, pietas, intuito e silenzio. A volte, ripeto a volte, sarebbe giusto intervistare il silenzio: contiene sgomento, rispetto, vicinanza. Poi, piano piano, riprendiamo a parlare, senza formule predefinite e ancora trattenendo il respiro. È un paradosso, lo so. Che ritrovo nei versi di un grande poeta, René Char: “Ci occorre un fiato da fracassare dei vetri. E nondimeno abbiamo bisogno d’un fiato che possa esser trattenuto a lungo”, ha scritto.

Torniamo dopo le parole potenti che l’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, ha pronunciato ieri nell’omelia per i funerali di Lorenzo, Daniela e Fabio, vittime della strage familiare dello scorso 1° settembre (la famiglia ha invitato a devolvere le eventuali offerte all’Associazione Kayros, fondata da don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria, l’Istituto minorile di Milano dove è detenuto Riccardo). Delpini ha immaginato un dialogo fra ciascuno di loro e Dio che li accoglie: ciascuno di loro parla di sé e parla di Riccardo, con pensieri in cui si incrociano amore e responsabilità. «Di fronte all’incomprensibile tragedia – ha aggiunto l’Arcivescovo – la parola del Signore ci aiuta a decifrare l’enigma e a raccogliere da Lorenzo, Daniela, Fabio il cantico della vita e della speranza giovane di un fratello, l’intensità dell’amore misterioso di una mamma e la responsabilità della parola vera di un papà».

Torniamo non per parlare di Riccardo, ma per parlare di noi, dei nostri figli, delle nostre famiglie “normali” che ci sono sembrate (con paura) così simili a quella di cui stavamo leggendo sui giornali, almeno fino all’istante “prima” della fine.

Lo facciamo con Laura Pigozzi, psicologa e psicoanalista, autrice tra gli altri di Troppa famiglia fa male (2020), Amori tossici (2023)  e proprio in questi giorni in libreria con L’età dello sballo (Rizzoli). Anche lei, che avevo cercato “a caldo”, aveva chiesto di aspettare qualche giorno, perché uscisse qualche elemento in più su cui riflettere. «Di Riccardo non sappiamo niente e non sono tra le persone che lo vedrà in carcere, quindi non ho nulla da dire. Mi interessa ragionare sulle reazioni, che dicono di noi e “dell’aria che tira”», dice. 

A ridosso di quel sabato notte, tutto sembrava indecifrabile. Poi qualche frammento è iniziato ad uscire. Che cosa l’ha colpita?

Prima di tutto la reazione della stampa, incredibile, davanti a un ragazzo che uccide tutta la sua famiglia e contemporaneamente dice che si sentiva estraneo ma non alla famiglia. È una dichiarazione incongrua, è una cosa che non si capisce e per noi psicoanalisti quando c’è qualcosa che non si capisce è segno che lì c’è qualcosa di interessante. La prima preoccupazione della stampa invece è stata quella di “salvare la famiglia”, di dire “la famiglia non c’entra”, con la ricerca di molti interventi volti a rassicurare la “categoria” dei genitori. Ma se continuiamo a rassicurare i genitori e i genitori continuano a rassicurare i figli… non ne veniamo fuori. Dobbiamo accettare che i genitori vadano svegliati e che i figli vadano svegliati, dicendo a entrambi cose che non vogliono sentire. Infatti poi dalle dichiarazioni successive è stato chiaro che questo ragazzo, Riccardo, si sentisse un po’ “invaso” dalla famiglia: il che, sia chiaro, non è una colpa di quei due genitori, il fatto è che le famiglie oggi fanno questo, invadono. Allora si sono cercati problemi nella scuola… ma le relazioni scolastiche, anche quando sono pessime, non sono il primum mobile, sono qualcosa che discende da altro. La relazionalità nasce in famiglia, tutto ciò che vediamo negli individui nasce in famiglia. Pensare a “salvare la famiglia” in un’epoca in cui il 50% delitti avviene dentro la famiglia è un’operazione ideologica. 

Che cosa dobbiamo fare noi con i nostri ragazzi “normali”, nelle nostre famiglie “normali”? Tutti ci siamo chiesti questo. E ci siamo chiesti con timore e tremore se può succedere anche a noi quello che è successo a Paderno…

Ci sono due problemi. Il primo – come dicevo –  è che le famiglie oggi invadono. Non lasciamo per niente indipendenza e autonomia ai figli. Crescere figli indipendenti non è affatto una preoccupazione dei genitori. Poi però davanti a fatti del genere i genitori chiedono attoniti “ma cosa facciamo?”. Primo, facciamo un passo indietro. L’estate non passatela con i figli. Mandateli a un campo estivo, archeologico, sportivo, agli scout. Sa che un’associazione che ha sempre fatto campi estivi per adolescenti adesso ha accettato che insieme ai ragazzi partano anche i genitori? Così facendo hanno abdicato al loro ruolo educativo. Io ho un appartamento sul lago di Garda, le vedo le famiglie che vengono in vacanza. Arrivano con i figli – anche grandi – e stanno lì fra casa e piscina per dieci giorni, escono solo la sera per andare a cena. Italiani, tedeschi, inglesi, austriaci, belgi… fanno tutti così. Vogliamo goderci i figli perché non siamo capaci di avere i figli lontani. Invece bisogna cercare e coltivare una separazione costruttiva dai figli. Non significa mandarli via, ma fargli capire che è normale che questa separazione avvenga, perché dovranno vivere senza di noi. La nostra mission di genitori è quella, far sopravvivere i figli senza di noi. 

Il secondo punto?

Curiamo il rapporto tra i fratelli. Noi da fuori non sappiamo se nella vicenda di Paderno abbia un senso che il primo ad essere stato accoltellato da Riccardo sia stato il fratello. Tuttavia uccidere un fratello – come la Bibbia racconta – non è cosa rara. C’è spesso una ferita aperta tra i fratelli, ma i genitori fanno finta di niente. Della questione dei fratelli e della loro gelosia invece dobbiamo occuparci presto come genitori. Smettiamola di dire che i figli per noi sono tutti uguali. Non è vero. Non l’ho mai visto. Bisogna differenziarli, fare delle cose con un figlio e altre cose, diverse, con l’altro figlio, non possiamo fare con tutti i figli le stesse cose. 

Il suo nuovo lavoro, L’età dello sballo, è dedicato alla dipendenza. Non parla però solo di sostanze. Nelle prime righe si legge che «la dipendenza è la malattia del secolo ed è alla base di ogni tossicità. Negli adolescenti tossicodipendenti di oggi sembra esserci un prolungamento, infinito e senza forma, dell’immaturità infantile in cui il desiderio si presenta sfocato e la brama di soddisfazione non riesce ad essere posticipata, reclamando il godimento immediato di una droga che è il sostituto di un oggetto da cui sono rimasti dipendenti. Godere senza desiderare è la cifra di una civiltà drogata».  

Questo è il problema più sottostante ancora, il fatto che noi viviamo in un’epoca che promuove la dipendenza, siamo immersi “nell’età delle dipendenze”. La dipendenza è la malattia del nostro secolo. E non parlo solo degli stupefacenti: è tutto il mercato – del cibo, dei vestiti, del divertimento – che crea dipendenze dopaminiche appoggiandosi sullo sfruttamento del circuito biologico cerebrale di base della ricompensa, che genera dipendenza. Usa questo meccanismo per farci restare bambini, perché la dipendenza è un godimento psicobiologico deviato, che ci fa perdere di vista i desideri umani. La mia tesi è che tutte le dipendenze si innestano nella prima dipendenza, che è quella dai genitori (tra l’altro uno studio dell’Università di Losanna ha mostrato che già a tre mesi il bambino è cosciente che esiste una triangolazione e quindi tutte le nostre convinzioni basate sulla diade tra il bambino e la madre dai tre mesi in poi decadono… e che i bambini a sei mesi – anche a tre ma diciamo pure a sei – possono tranquillamente andare al nido). Il consumo di stupefacenti, i disturbi alimentari, le relazioni tossiche, il cellulare… hanno un legame strettissimo con la dipendenza familiare e sfrutta un circuito che si è formato nelle primissime esperienze del bambino con la madre. 

Qual è il problema del godere senza desiderare?

Quando c’è una dipendenza, quando si sviluppa il godimento – che è diverso dal desiderio – significa che le strutture dell’edipo, del contenimento, del “no” sono completamente saltate, non solo dal punto di vista intrapsichico del soggetto ma anche da quello della relazione con l’altro, con il sociale. Quando manca il confine, cosa succede? Succede che non si distingue più tra fantasia e realtà. Si passa all’atto anziché fantasmizzare. Tanti di noi hanno pensato/sognato di uccidere il fratello, quantomeno tutti tra fratelli ci siamo fatti scherzi terribili, ma sapevamo benissimo che queste cose atroci avevano un limite. Lo sapevamo e basta, anche senza che i genitori intervenissero, perché i genitori erano intervenuti prima a dare una conformazione alla relazione. Adesso il limite non c’è più, perché dopo essere stati genitori adorati dai nostri bambini, al primo conflitto con i figli adolescenti ci manca la terra sotto i piedi.

In foto i funerali della famiglia uccisa dal primogenito diciassettenne a Paderno Dugnano, foto Claudio Furlan/Lapresse

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