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Somalia, il caos bregna sovrano

Dopo il ritiro delle truppe etiopi, è alle porte anche quellobdella forza di pace africana. E la linea del negoziato perdebuno dei suoi uomini di punta, Mario Raffaelli

di Redazione

I l vuoto attira guai o produce cambiamenti. Il problema è che non si sa quale delle due opzioni prevarrà in Somalia, Paese che ancora di recente è stato definito «l’avamposto di Al Qaeda in Africa». Il 13 gennaio le truppe dell’Etiopia hanno cominciato ad abbandonare il territorio somalo sul quale erano schierate (con l’appoggio politico e finanziario degli Stati Uniti) dal marzo 2007. L’Etiopia era entrata nel Paese vicino in soccorso del debole governo di transizione e contro il movimento politico-militare delle Corti islamiche, che nel 2006 erano arrivate a controllare la quasi totalità del territorio. Manifestazioni di gioia da parte dei somali hanno accompagnato il ritiro degli etiopi dalla loro base principale, nella parte nord di Mogadiscio. Ma con la loro dipartita si crea un vuoto pericoloso. Che non è l’unico. Il 28 dicembre si è dimesso Abdullahi Yusuf Ahmed, il presidente del governo di transizione somalo, che, a quattro anni dalla sua creazione, non è mai riuscito ad avere il controllo del Paese. Il vento è cambiato anche nella diplomazia occidentale. Uno dei mediatori europei più autorevoli, il delegato del governo italiano Mario Raffaelli , è stato sollevato dal proprio incarico in Somalia. «Raffaelli ha sempre sostenuto la via negoziale, quella del dialogo politico contro i fautori del braccio di ferro, americani in primis», afferma Giulio Albanese , che ha anticipato la notizia nel suo blog su Vita.it. «La sua dipartita è un segnale forte, significa che la linea che prevale ormai è un’altra». L’opera di Raffaelli è stata essenziale per arrivare all’accordo di Gibuti firmato lo scorso giugno tra il governo e gli islamici moderati riuniti nell’Alleanza per la Re-Liberazione della Somalia. Un accordo che avrebbe isolato i gruppi estremisti legati ad Al Qaeda e che, se messo in atto con tempestività, avrebbe potuto essere un solido punto di partenza per la stabilizzazione del Paese. «Questo purtroppo non è avvenuto», dice a Vita lo stesso Mario Raffaelli. «I due comitati che dovevano garantire il rispetto dei punti firmati a Gibuti, entrambi presieduti dall’Onu, sono stati creati dopo molti rinvii e non si sono mai riuniti in Somalia; solo negli ultimi giorni si è deciso di creare una green zone a Mogadiscio per permettere a questi organismi di operare».
Una volta completato il ritiro degli etiopi, a difesa di Mogadiscio resteranno solo le truppe dell’Amisom, la missione di pace dell’Unione africana, circa 3.500 soldati ugandesi e burundesi spediti sul posto undici mesi fa. Ma sia Kampala che Bujumbura hanno fatto sapere di non essere disposte a restare ancora. Se non arriveranno soldati di rinforzo – ne sono stati chiesti altri 5mila – lasceranno la Somalia nel giro di un mese.
«La gioia espressa dai somali per la fuoriuscita degli etiopi può rivelarsi di corta durata», afferma monsignor Giorgio Bertin , amministratore apostolico di Mogadiscio, che nei giorni scorsi ha avuto un colloquio con il primo ministro somalo per Caterina Giraudo e Maria Teresa Olivero, le due suore rapite. «È un momento di grave incertezza. Il governo di transizione è debole, lo stesso primo ministro ci ha detto che non è in grado di controllare il Sud del Paese, dove si troverebbero le suore, che è di nuovo in mano alle Corti islamiche. È chiaro che Amisom da sola è destinata a fallire». Gli Stati Uniti stanno facendo circolare alle Nazioni Unite una bozza di risoluzione che prevede il dispiegamento di una forza di pace Onu in Somalia. Ma il segretario generale dell’Onu, Ban Ki Moon, ha precisato di aver chiesto ad almeno 50 Paesi e a tre organizzazioni internazionali di sostenere la richiesta di invio di una forza multinazionale, ottenendo risposte «molto tiepide o negative».

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