Aldo Bisacco, 48 anni, ha un’atrofia muscolare di tipo 3. «Da quando avevo 30 anni uso una carrozzina manuale, che adesso utilizzo di più, la mia è una patologia genetica progressiva». Vive a Padova «ma ho vissuto anche in altri Paesi. Ho abitato a Londra per quattro anni, sono stato per un periodo in Spagna, a Salamanca e poi ho vissuto per sei mesi a Los Angeles». Regista, si occupa di comunicazione nell’ambito sociale e aziendale.
Bisacco, ci racconta come ha avuto inizio la sua carriera?
Non ho potuto studiare cinema, sarei dovuto andare in un’altra città e non era possibile, nelle mie condizioni. Sono rimasto intrappolato per anni in un contesto di “abilismo” che vivevano i miei genitori. All’epoca non esisteva internet, quindi non si poteva studiare online. Dopo il diploma ho lavorato per un’azienda come impiegato commerciale, un lavoro che non mi piaceva. Come passione avevo sempre il mondo del cinema, frequentavo gli ambienti cinematografici e i festival. Ho studiato e le conoscenze sono arrivate a un punto tale che mi hanno dato la spinta per lasciare il lavoro e buttarmi totalmente a fare esperienza nell’ambito del cinema.
La disabilità nella mia comunicazione si vede, ma si allontana da quel contesto “lagnoso” che vedo tuttora in tante campagne, ad esempio su Instagram, dove si dà risalto a quello che le persone con disabilità non possono fare, al fatto che hanno problemi
Ho iniziato ad apprendere accanto al regista spagnolo Alejandro Amenàbar, premio Oscar, ai registi italiani Carlo Carlei, un amico a cui devo molto, a Ermanno Olmi e Gabriele Muccino. Ho cominciato ad essere più convinto: quello che per me prima era una passione stava diventando un lavoro. A 33 anni mi sono affacciato alla regia con un bagaglio di esperienze, più operativo che teorico, nella direzione nell’ambito pubblicitario.
Quindi è un autodidatta?
Sì, ma ho sempre imparato sul campo, come si impara qualsiasi lavoro artigianale. Per molti anni ho fatto regia per diversi spot pubblicitari, li scrivevo e li giravo come regista, alcuni prodotti da me e altri da varie produzioni. Lavoro molto nella comunicazione in ambito sociale, ho realizzato degli spot per Unione italiana lotta per la distrofia muscolare-Uildm e dei cortometraggi per Telethon, ad esempio La forza trasparente, con protagonista Federica
Pellegrini. Ho collaborato ad uno spot di Samsung Paralympics per i giochi paralimpici. Nei miei lavori cerco sempre di porre l’accento più sulla persona che sulla disabilità.
In che modo?
La disabilità, nella mia comunicazione, si vede ma si allontana da quel contesto “lagnoso” che vedo tuttora in tante campagne, ad esempio su Instagram, dove si dà risalto a quello che le persone con disabilità non possono fare, al fatto che hanno dei problemi. Tutti abbiamo dei problemi, cerco sempre di restituire più dignità alla persona con disabilità. Per esempio, nella campagna Liberi di essere campioni, preparata nel 2012 per Uildm, il focus è l’emozione, quello che le persone con disabilità possono vivere e non quello che non riescono a fare. L’impostazione non è “caritatevole”, non ho giocato sulla tematica della malattia per spingere le persone a donare ma ho fatto vedere le capacità che hanno le persone con disabilità di vivere appieno la propria vita.
Ho dovuto affrontare continue battaglie con i committenti per far passare un messaggio fondamentale: le persone con disabilità sono persone, non strumenti di pietismo
Quali sono le difficoltà dell’essere un libero professionista?
Uno degli ostacoli maggiori è la comunicazione sociale. Ho dovuto affrontare continue battaglie con i committenti per far passare un messaggio fondamentale: le persone con disabilità sono persone, non strumenti di pietismo. Spesso viene enfatizzata la loro condizione nella maniera più drammatica possibile per suscitare commozione e spingere alla donazione, veicolando un’immagine stereotipata e svilente. La vera sfida è stata imporre un nuovo approccio alla comunicazione, che superasse questa narrazione. Poi, le mie difficoltà sono quelle di tutti i liberi professionisti: nel momento in cui si diventa procacciatori del proprio lavoro, ci sono le difficoltà e i rischi che valgono per tutti quanti.

Per quanto riguarda il risultato, se uno è disabile, ovviamente non ha “preferenze” da parte del cliente: bisogna consegnare un lavoro che sia in linea con quello che è stato chiesto, stop. Negli ultimi anni, più che di regia, mi sono occupato di consulenza. Oggi ho trovato maggior spazio nell’ambito dello sviluppo di una strategia all’interno di aziende e di scrittura di spot. Per quanto riguarda la professione del regista, si è molto inflazionata e c’è molta concorrenza in un mercato che pensa solo a “postare”. Attualmente sto sviluppando un progetto per una serie tv, che affronta il tema dell’abilismo in una forma comico-drammatica.
Quali sono, invece, le soddisfazioni del suo lavoro?
Le soddisfazioni sono legate al poter fare un lavoro che mi appassiona e alla possibilità di esprimere la mia creatività. La più grande soddisfazione è stata riuscire a far passare il messaggio in cui credo, contribuendo, nel mio piccolo, a smantellare concetti abilisti radicati da sempre. Sapere di aver dato il mio apporto a una comunicazione più rispettosa e inclusiva è ciò che mi motiva di più.
Come dovrebbero approcciarsi le persone con disabilità al mondo del lavoro?
Uno dei problemi principali è sempre come il mondo si approccia a me, persona con disabilità, questo può avere un’influenza importante. Se una persona con disabilità è cresciuta bene, senza eccessive situazioni di protezione familiare, senza essere trattato da persona “speciale”, cresce come gli altri. Quindi, anche l’approccio verso un’attività lavorativa è un approccio di “normalità”. Riferendosi a una persona con disabilità, si utilizza spesso il termine
“speciale”, ma perché? Una persona con disabilità, o con una mobilità ridotta, che vive in una società progettata per i sani, automaticamente si trova su un altro pianeta, si sente in qualche modo esclusa. La cosa principale sono gli atteggiamenti, sono i pensieri che si hanno nei confronti delle persone con disabilità.
Che difficoltà ha incontrato, nel mondo del lavoro?
Purtroppo l’Italia è un Paese che ancora fa molta fatica ad adattare o, comunque, a creare spazi idonei. Ancora ci sono delle gravi difficoltà a pensare gli spazi per tutti. Per esempio non tutti i miei clienti hanno un ufficio accessibile, così mi sono trovato a fare il primo appuntamento in luoghi impensabili. Quando si progetta, bisogna progettare per tutte le persone, e non realizzare per poi tornarci sopra dopo, facendo delle modifiche. Viaggio molto, sono stato in hotel che hanno rinnovato: a Milano per esempio c’è un hotel che ha fatto dieci stanze per persone disabili, vai lì e ti sembra di essere in un luogo a metà tra un ospedale e un hotel. Capisco l’intenzione della proprietà nell’aver dato preferenza a un buon numero di stanze accessibili, ma poi le cose bisogna farle con cura. Di base, quando si fa un progetto, deve essere già per tutti.
Ad un certo punto mi sono chiesto: «Vuoi continuare a vivere la vita che vogliono gli altri per te?». Mi sono risposto di no e ho intrapreso un’altra strada, la mia strada
Gli hotel dovrebbero avere tutte stanze accessibili. Questo si chiama universal design. In Giappone, dove sono stato l’anno scorso, purtroppo su 300 stanze di hotel ne trovi una che si chiama universal room. Però la stanza che trovi lì è uguale alle altre stanze: lì le cose vengono progettate con un certo rigore, questa uniformità delle caratteristiche va molto bene. Bisogna ancora arrivare a capire che, se si progetta una buona parte delle stanze con certe caratteristiche, si può aumentare la propria disponibilità e attirare anche una clientela con disabilità. Spesso si pensa che il disabile non viaggia perché ha problemi. Non è vero. Una persona con disabilità viaggia quando trova dei comfort, come tutte le persone. Un incentivo a viaggiare è azzerare, abbassare o togliere tutte queste complicazioni nella pianificazione del viaggio. Londra ha un’accessibilità da cinque stelle per quanto riguarda i mezzi pubblici, i luoghi da visitare, le strutture ricettive. Questo rende usufruibile un contesto metropolitano a tutti.
Lei ha viaggiato e viaggia molto. I suoi spostamenti sono stati impegnativi?
Sì, i miei viaggi sono sempre stati impegnativi, sia nella pianificazione generale che nella ricerca di alloggi accessibili. Questa difficoltà scoraggia molte persone con disabilità dall’intraprendere qualsiasi tipo di viaggio, sia per studio che per piacere. Oggi più che mai, le risorse statali dovrebbero essere investite per favorire programmi formativi all’estero, garantendo un reale supporto alle persone con disabilità che desiderano partecipare a esperienze come l’Erasmus, senza il peso di dover gestire da sole la ricerca di assistenti e soluzioni abitative accessibili. Nelle mie esperienze formative all’estero, ho dovuto occuparmi personalmente e finanziariamente dell’assistenza e della ricerca di alloggi adeguati. Questo comporta un notevole dispendio di tempo, energie e risorse economiche, fattori che spesso rappresentano un ostacolo e possono scoraggiare molte persone dal cogliere queste opportunità.
La sua disabilità le ha dato, secondo lei, una spinta ad intraprendere un percorso da libero professionista?
Non penso. Credo di aver intrapreso una strada che mi piaceva esplorare, a prescindere dalla patologia. Piuttosto, come dicevo, i miei studi sono stati diversi da quelli che avrei voluto fare, a causa della mia condizione, per paura da parte della mia famiglia. Non ho fatto l’università perché nella mia città non c’era la facoltà nella quale avrei voluto studiare, sarebbe stato impossibile andare altrove. Sono stato indotto al mondo del lavoro, senza considerare il fatto di quello che mi sarebbe piaciuto fare. Nella mia famiglia è stata messa la disabilità al primo posto.

Poi nel contesto lavorativo sono cresciuto, ho continuato a documentarmi su cosa avrei potuto fare finché, ad un certo punto mi sono chiesto: «Vuoi continuare a vivere la vita che vogliono gli altri per te?». Mi sono risposto di no e ho intrapreso un’altra strada, la mia. Con qualche risparmio messo da parte, ho iniziato la professione che avrei voluto sempre fare. Oggi i ragazzi con disabilità hanno molto più accesso allo studio, ma tuttora sono molti i problemi relativi alla mobilità.
Ci spieghi.
Si possono seguire le lezioni a distanza, su internet c’è la reperibilità di materiali ed informazioni. Il problema è che una persona con disabilità deve arrangiarsi per tante cose: un istituto, un’università comunque non se ne fa carico. Se una persona non ha risorse economiche per pagare assistenti per le trasferte diventa impossibile, se non molto complesso, accedere a percorsi universitari o più specialistici, magari all’estero. Poi strutture vecchie, che magari non hanno caratteristiche di accessibilità, escludono a priori l’accesso di persone con mobilità ridotta.
La cosa sbagliata è pensare che il disabile abbia qualcosa in meno rispetto agli altri oppure che deve fare di più degli altri. Questo è un concetto di abilismo, in cui si testano le persone sul discorso della performance. Se una persona con disabilità si laurea gli viene detto: «Che bravo che sei». Ma questo è sempre un pensiero abilista. A mio parere, le realtà lavorative in cui ci sono tutte e sole persone con disabilità non fanno bene.
Per me non si dovrebbe parlare di inclusione, implica che ci sia qualcuno che è escluso. Trovo che sia più interessante un’integrazione più ampia, dove si impara a convivere nel completamente diverso. È questo che cerco di trasmettere attraverso i miei lavori
Perché?
Ci sono cooperative in cui lavorano tutte persone con disabilità, anche psichiche. Si tratta di realtà in cui si lavora spesso nel settore della grafica e dell’impaginazione. A mio parere, si tratta di situazioni in cui si va a “ghettizzare”. Queste realtà, da un lato, vanno bene perché danno lavoro, ma dall’altro non vanno ad integrare le persone. La società dovrebbe essere sempre mista, deve esserci una proporzione che permetta un maggior scambio. Le persone, che siano normodotate o con disabilità, imparano e crescono sempre nel confronto. Questo discorso vale anche (e soprattutto) per i bambini con disabilità, non bisogna collocarli in un contesto dove ci sono solo disabili. Per me non si dovrebbe parlare di inclusione, perché l’inclusione presuppone che ci sia qualcuno che è escluso. Tutti cresciamo nelle diversità che ognuno ha. Trovo che sia più interessante un’integrazione più ampia, dove si impara a convivere nella diversità, nel completamente diverso. È questo che cerco di trasmettere anche attraverso i miei lavori.
Questo articolo fa parte di una serie dedicata a “Disabilità & Impresa”. Qui gli articoli già pubblicati:
Non solo collocamento mirato, le persone con disabilità vogliono essere (anche) imprenditori
Imprenditori con disabilità: la sfida di essere più capaci degli altri
Ho messo 40 persone all’opera per facilitare la vita di chi è in carrozzina, come me
Foto dell’intervistato (credit Giulia Fassina)
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