Dove va la sostenibilità? Risponde Filippo Bettini

Aiutare la transizione si può: premiando i consumatori che sceglieranno prodotti sostenibili certificati

di Giampaolo Cerri

Il neopresidente del Global Compact Italia, l'iniziativa Onu che da 25 anni sollecita i mondo imprenditoriale allo sviluppo sostenibile, spiega come vede il cammino delle aziende responsabili, in mezzo ai cambiamenti politici americani e alle razionalizzazioni europee del Green Deal e delle altre direttive. Ipotizza un label per i prodotti sostenibili e incentivi Ue agli acquirenti. E del Salone della Csr dice: «Un'arena importante per veicolare le sfide di ieri e di oggi»

Sono le aziende che si sono messe in moto dopo un famoso discorso di Kofi Annan del 1999 a Davos, con cui l’allora segretario generale Onu propose ai leader di impresa là riuniti un Patto globale «di principi e valori condivisi, che darà un volto umano al mercato globale».

Il Global Compact nacque poi agli inizi del 2000. A oggi si parla di oltre 20mila aziende nel mondo che hanno sensibilità allo sviluppo sostenibile, 678 delle quali sono quelle del ramo italiano che, da qualche mese, ha un nuovo presidente, Filippo Bettini, succeduto a Marco Frey.

Bettini, bioingegnere meccanico governa da vent’anni la sostenibilità in Pirelli, di cui è Sustainability senior advisor. Nel nostro viaggio per capire dove vada l’impegno Esg e la responsabilità di impresa, un interlocutore che può dirci se le aziende hanno davvero la febbre del riposizionamento, dopo l’arrembante ritorno di Donald Trump, e che temperatura segna il termometro.

Lo incontriamo con la Executive director dell’organizzazione, Daniela Bernacchi.

Responsabili delle risorse umane riuniti in un incontro del Global Compact sulla De&I, in maggio a Milano.
A tema il lavoratori con background migratorio.

Presidente, lei che è persona impegnata da tempo su questi dossier, da qualche mese anche come presidente del Network italiano del Global Compact delle Nazioni Unite, di cui era consigliere da tempo. È preoccupato?

Non so se ci troviamo di fronte a un turning point o a un momento di pausa dopo una fase di crescita, che è stata molto accelerata nell’ultimo decennio. Una pausa a volte può essere anche fisiologica e acuita, in questo caso, da eventi esterni. Mi riferisco anzitutto al turmoil, questo tumulto internazionale, che ha spostato la tensione geopolitica. Abbiamo conflitti a noi vicini, nel mondo ne abbiamo quasi una sessantina, e in questo scenario già molto complesso si inseriscono decisioni politiche che aprono la strada a un backlash sulla sostenibilità (il dietrofront indotto dagli indirizzi dati da Trump, ndr).

Andiamo per ordine, presidente. Partiamo dall’America.

C’è una politica, adottata dal nuovo governo, che ha preso anche scelte molto chiare da questo punto di vista, e certamente non in questo momento allineate alla nostra agenda. Ma poi c’è anche un momento di riflessione che deriva dalla situazione europea, dalla regolamentazione continentale, che è stata, per certi aspetti, molto brillante ma anche un pizzico ipertrofica, negli ultimi anni.

Ossia, Bettini?

Ha portato le aziende, anche le più motivate, ad alzare un warning sull’equazione sostenibilità-competitività, un’equazione, dal mio punto di vista, che non deve essere letta in modo negativo.

Perché?

Perché è abbracciata ad aziende che realmente, negli ultimi decenni, hanno fatto della sostenibilità un’agenda seria, robusta e trasparente, ma che certamente, adesso, avanzano la richiesta di riconsiderare anche alcuni elementi dell’attuale regolamentazione, arrivando a un chiarimento tra l’attitudine alla sostenibilità, come compliance, come adempimento a un sistema di regole fondamentalmente e, viceversa, la sana attitudine alla sostenibilità che queste stesse aziende hanno identificato come modalità per confermare una creazione di valore nel tempo. Qualcosa che andasse oltre il cortotermismo di una comunicazione trimestrale o semestrale o annuale agli stakeholder o, secondo vecchio schema, specificamente agli shareholder. Una modalità, appunto, che crea le condizioni anche naturali perché un’azienda possa resistere nel tempo.

È il caso di Pirelli.

Ho la fortuna di lavorare in un’azienda che ha più 150 anni di vita. In fondo, nell’aspettativa dei prossimi 150, è una declinazione che guarda ai valori di una gestione responsabile come elemento imprescindibile per andare avanti. Guardando poi alla community del Global Compact al livello mondiale, ma soprattutto dal punto di vista del Global Compact Network Italia, stante il mandato…

Che cosa vede?

Certamente, nel nuovo Consiglio, una sana e robusta convinzione a mantenere dritta la barra del timone, a non cambiare le priorità. Forse sì, anche di approfittare – ma non nel senso di una scelta di convenienza – di un maggior approfondimento in corso nella fase della revisione della normativa europea, per cercare di dare anche un contributo più fattivo sulla regolamentazione.

In che senso, presidente?

In quello, auspicabilmente, di mettere a punto ex ante, piuttosto che intervenire ex post, quando sia in una fase di recepimento o adozione di una serie di indicazioni e di normative. Quindi, riconferma dell’impegno da parte delle aziende principali, anche perché sono queste condizioni che, oggi, vedono ancora un mercato globale che ha le sue asimmetrie.

Per esempio?

Per esempio, una Cina che, sul piano della roadmap ambientale, va avanti con grande accelerazione, creando opportunità o, viceversa, problemi e barriere se le aziende che esportano verso il mercato cinese non sono in condizione di andare avanti in quella direzione. E quindi anche una situazione, stavolta all’interno dei confini europei, che certamente ci vede già attenti ai temi della sostenibilità con un mercato che, quindi, si alimenta solo se alcune regole vengono seguite.

La sento ottimista. Un altro corno della questione, oltre alle aziende, sono anche i cittadini che hanno dimostrato di avere coscienza soprattutto dei temi del cambiamento climatico. Reggerà questa consapevolezza?

Mi viene in mente una frase che avevo sentito ripetere, più di una volta, da parte di Georg Kell, il primo Direttore esecutivo dell’UN Global Compact, a New York, quando il Global Compact ha preso il via. Kell era l’ingegnere tedesco che aveva assunto questo ruolo, oggi ricoperto da Sanda Ojiambo.

Che cosa le diceva Kell?

A noi, che eravamo le aziende pioniere del Global Compact, diceva: «Dobbiamo aspettare che, prima o poi, si svegli lo sleeping giant». Pensava proprio ai cittadini, il “gigante dormiente” era la cittadinanza. Vedrete, diceva, prima o poi, su questi temi ci sarà una presa di posizione da parte della comunità. Negli ultimi anni ne abbiamo avuto qualche segnale forte.

Sui temi ambientali o anche su altro?

C’è stata, senz’altro, anche una maturazione su tanti temi legati agli aspetti più “social” (la “esse” di ESG, ndr), della Diversity & Inclusion, che pure sono diventati crescentemente dominio da parte del cittadino. Quello che auspichiamo, anche da un punto di vista aziendale, è che, nei prossimi anni, le istituzioni si attivino con forza ed efficacia per incentivare una ulteriore presa di coscienza da parte del cittadino.

Incontro alle Nazioni Unite di New York, a cui partecipano rappresentanti dell’ Un Global Compact Italia

Vale a dire?

Si è molto raccomandato all’Unione europea di creare le condizioni perché le aziende possano investire in sostenibilità, cioè di finanziare gli investimenti di sostenibilità. Ed è stato un passaggio importante. Oggi o domani, quello che credo sarà ancora più importante sarà un legislatore, un governo che appoggi, non solo l’incentivazione agli investimenti aziendali, ma il rewarding, ossia la ricompensa, al cittadino, perché scelga prodotti o servizi sostenibili.

Un premio, un incentivo…

Con uno spostamento dell’asse anche dell’impegno istituzionale in questa direzione, proprio per dare al cittadino gli strumenti pratici per raggiungere questo tipo di obiettivo e quindi essere premiato nella scelta di prodotti sostenibili. Questo significa ovviamente riuscire a fare un passaggio importante sul piano della qualità e della robustezza del claim sulla sostenibilità di prodotto, perché non dovrà essere solo comunicazione pubblicitaria ma qualcosa di reale. Significa avere attestazioni da una parte terza che quanto stiamo scegliendo come consumatori è un prodotto sostenibile.

Un label certificato da enti terzi, come avveniva anni fa già per il biologico?

Esattamente. Gli organismi di certificazione che garantivano.

Torno alla bella immagine dello “sleeping giant”: questo grande corpo si è svegliato abbastanza. Però, quando ci si avvicina al momento della responsabilità, allora ci sono i trattori, i gilets jaunes: arti che parrebbero andare per conto loro. Che gliene pare? Mi risponda, se può, col cappello dell’istituzione e con quello dell’azienda.

Ecco, con il cappello dell’istituzione, direi che ci sentiamo anche chiamati a un ruolo, auspicabilmente ancora più efficace e incisivo nei confronti del legislatore e della politica, un’attività a cui nel passato l’Un Global Compact Network Italia non si è dedicato in modo principale.

A che cosa vi siete dedicati maggiormente?

Al coinvolgimento della community aziendale, ai meccanismi di up-skilling e anche di re-skilling degli aderenti, soprattutto per i meccanismi di reporting.

Al miglioramento delle competenze o a dotarsi di nuove. Oggi, invece?

Oggi uno dei compiti a cui noi ci sentiamo maggiormente chiamati è quello di mantenere e di far anche crescere il nostro ruolo nei confronti delle Istituzioni. Guardiamo certamente a quelle italiane, perché è il nostro mandato ma, attraverso l’organizzazione internazionale, arrivare all’Europa e anche oltre Oceano, affinché ci sia un’attenzione e un sostegno anche pubblici per lo sviluppo e la diffusione delle competenze di sostenibilità all’interno delle organizzazioni, a tutti i livelli, a partire dai ruoli di leadership.

Insomma, un impegno di lunga lena.

Credo che la ricetta saggia trovi anche nell’how and when, nel come e quando, gli elementi che possono mettere tutti d’accordo. Perché bisogna accelerare nel processo ma, allo stesso tempo, tenere conto anche di quali sono i processi poi di maturazione.

Di nuovo le devo chiedere di fare qualche esempio.

Riallineare delle industries e cambiare, anche con alcune discontinuità tecnologiche, come quella che l’elettrico sta portando nella mobilità, richiede certamente che gli attori non siano miopi.

E lo sono stati?

Debbo dire che, in realtà, qualche caso di miopia, anche in Europa, l’abbiamo avuta: l’industria automotive, che conosco sufficientemente bene, non ha dimostrato una grande lungimiranza nel saper leggere certi elementi evolutivi già presenti. Nello stesso tempo, è molto importante capire come e quando certi cambiamenti debbano essere forzati, debbano essere imposti.

Cos’altro ha in animo di fare in questo mandato?

Certamente proseguiremo nel solco di quanto si è fatto finora, perché abbiamo avuto la fortuna di avere un periodo di gestione illuminata nella presidenza storica del network italiano dell’Un Global Compact, con Marco Frey, e nel ruolo del management, dello staff. Format che vince non si cambia.

Parafrasando il detto calcistico sulla squadra…

Abbiamo portato a casa ottimi risultati – o meglio i colleghi, ché io non posso attribuirmi i grandi meriti – e quindi in quella direzione continueremo a crescere. L’Un Global Compact è un marchio un pochettino ostico, ma tutti i marchi della sostenibilità lo sono. A partire da “sostenibilità”, che non è di immediata comprensione e poi Esg, Un Global Compact, sono tutti i marchi che hanno bisogno di una declinazione, per essere compresi. E, da questo punto di vista, un altro nostro impegno sarà quello di muoverci sul fronte, dicevo, delle istituzioni. E sull’altra direzione…

Su un’altra direzione?

Sarà quella di alzare il tono della comunicazione, anche nel confronto della pubblica opinione e di tutti i nostri stakeholder, proprio per essere ancora più compresi. Un grosso impegno, lo vedo poi sulla catena di fornitura, perché la value chain, soprattutto quella a monte, è lo strumento più efficace per “diffondere il verbo” fondamentalmente, in quanto il potere negoziale che si ha anche nel rapporto fornitore-cliente è il sistema che può aiutare a forzare certe resistenze.

Beh, certo, la forza di chi acquista…

Se vuoi continuare a fornire Pirelli o qualsiasi altra azienda aderente all’Un Global Compact, in qualche modo devi collaborare fondamentalmente sulle tematiche ambientali, ma sempre di più sulle tematiche sociali, che sono forse sfuggite un poco negli ultimi anni, ma che continuano a rappresentare un problema enorme che noi, come Un Global Compact Network Italia, vediamo nella difesa dei diritti umani e delle dignitose condizioni di lavoro. Sono questi i temi che ci stanno molto a cuore e che quindi vogliamo cercare di far veicolare all’interno della catena di fornitura. Un’altra grande sfida sta coinvolgendo qualsiasi cittadino, è rappresentata dalla digitalizzazione e dall’intelligenza artificiale, ma qui apriremmo un capitolo enorme.

Per un’altra intervista, presidente. Voi avete il merito storico d’essere stati nel Comitato promotore del Salone della Csr e dell’Innovazione sociale (Milano, Bocconi, 8-10 ottobre), sin dall’inizio. Oggi il past president Frey è ancora nel Comitato scientifico. È un evento che, in tutti questi anni, ha quasi alfabetizzato un po’ di aziende, ma anche la cittadinanza.  Si può fare di più col Salone della Csr?

Quando qualcuno dice “è tutto finito, non si fa più niente su queste tematiche”, è ancora più prezioso mantenere e riaffermare la centralità dei momenti come quello che il Salone veicola, proprio per riconfermare l’impegno che gli attori poco più esposti su queste tematiche possono dare. Lo dico anche come azienda che si è accostata al Global Compact Onu dal 2004 e ha visto alimentare, di volta in volta, le tematiche della nostra agenda proprio sulla base degli stimoli che dal Global Compact Office di New York arrivavano – dai diritti umani, dicevo, ma anche quelli della transformational governance, e delle tematiche della fairness, della correttezza nella gestione fiscale per aziende multinazionali come la nostra. Non so quali saranno gli argomenti che popoleranno anche l’agenda dei Saloni futuri, ma certamente poter contare su un’arena di questo tipo è un altro modo per veicolare le sfide di ieri e i risultati auspicabilmente conseguiti nel frattempo. Ma anche lanciare nuove sfide.

Persona vista da dietro su una cyclette, accanto a lei altre cyclette, sullo sfondo un pubblico.
Un’immagine del Salone della Csr e dell’Innovazione sociale in Bocconi

Terminiamo, presidente, con una domanda personale: come è arrivato Filippo Bettini a questi temi?

Sono un bioingegnere meccanico e quindi mi sono cimentato fin dall’inizio, nella mia vita professionale precedente, quando lavoravo nel settore biomedicale e biotecnologico, nella gestione dell’innovazione, che è poi stata lo strumento che mi ha portato ad entrare in Pirelli nei primi anni 2000. La gestione dell’innovazione richiede, soprattutto nel settore farmaceutico-biotecnologico, una lettura di lungo termine, perché già allora i prodotti, i farmaci, si sviluppavano in almeno 10 anni.

Quindi una certa attitudine a guardare verso il futuro…

È sempre stata una prerogativa anche delle mie competenze. Quando sono entrato in Pirelli per occuparmi di gestione dell’innovazione, ho avuto la fortuna di dare un contributo sempre nella lettura del lungo termine, che poi ha portato – non certo per merito mio, ma per merito dell’azienda in cui opero – a coniugare la gestione del rischio e della gestione della sostenibilità. L’obiettivo era: abbiamo resistito 150 anni – allora erano 135 – proprio perché, non sapendo cosa fosse la sostenibilità, siamo stati la prima azienda a creare il congedo di maternità negli anni ’20 per le dipendenti, il fondo pensione…

E poi il villaggio Pirelli, certo…

Esattamente, tutte queste cose. E dunque, cerchiamo di farne tesoro e di proseguire in questa ottica. Quindi, sia la gestione dei rischi, sia la sostenibilità erano due modalità per l’azienda di preservare un valore, non nei confronti dell’azionista, ma proprio perché preservare significava farlo con tutti gli stakeholders. Questa è stata la mia fortuna. Poi, devo dire, rientrando nel privato-privato, che è curiosamente coincisa con una maturazione mia, ma anche della mia famiglia, di mia moglie (Francesca Pasinelli, a lungo alla guida di Fondazione Telethon, ndr), lei sul versante non profit, io su quello aziendale.

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