Troppi,
Ancora nomi senza volti
Troppi ancora nomi senza volti.
Volti
Non fatevi stoppare da sti stolti
Noi siamo quel che siamo
Dimostriamolo anche oggi.
Dice molto il ritornello della canzone Nomi senza volti, che dà il titolo all’album realizzato da alcuni ragazzi del quartiere Corvetto di Milano, negli spazi del Cag500, assieme al rapper Mirko “Kiave” Filice con il supporto dell’educatore Stefano “CesarOne” Cesana e Gigi Tufariello.
Il progetto Keep it real
Il disco è uno dei prodotti del progetto triennale “Keep it real – comunità in cammino”, con capofila Ap – Antimafia pop academy, con l’obiettivo di sperimentare e studiare l’efficacia dell’hip hop come ambiente di educazione non formale in contesti di marginalità sociale in cinque città italiane. Il progetto, sostenuto da Fondazione Alta Mane Italia, nasce nell’ambito di Keep It Real, la prima rete nazionale di artisti ed educatori uniti per la valorizzazione dell’hip hop come strumento di inclusione, e coinvolge un team di sei rapper (Augusto “Aku” Pallocca su Roma, Mirko “Kiave” Filice su Milano, Manuel “Kyodo” Simoncini su Bologna, Enzo “Oyoshe” Musto e Lorenzo “Lowdato” Lodato su Napoli e Antonio “Dongocò” Turano su Cosenza) e un gruppo di docenti e ricercatori universitari.
A Milano, l’attività è stata realizzata da FormattArt, associazione che fa dell’arte e della bellezza delle opportunità educative per i territori in cui opera. «Il rap è uno strumento di advocacy straordinario», afferma Iris Caffelli, la presidente. «L’abbiamo già sperimentato nel periodo a cavallo della pandemia per dar voce ai ragazzi che erano stati zittiti troppo a lungo. Pian piano la richiesta è aumentata sempre di più – soprattutto da parte dei giovani del Corvetto – ed è diventata un’attività permanente: i ragazzi hanno bisogno di punti di riferimento credibili».
Il rap: da sempre voce di chi non ha voce
Utilizzare rime e flow per dare una voce a chi non ce l’ha è una caratteristica fondante di questo genere musicale. «Il rap legato alla cultura hip hop ha un movimento incredibile ed estremamente affascinante», spiega Kiave. «Negli anni ‘70 un gruppo di persone emarginate, vittime di razzismo, di abusi, di intolleranza dal nulla e a budget zero si è inventato la più grossa rivoluzione culturale degli ultimi cinquant’anni. Ora le disuguaglianze sociali sono anche molte di più: è bello, anche solo a livello di immaginazione, offrire la possibilità che dal nulla possa nascere una rivoluzione. Poi il rap ti dà la possibilità di far confluire tutta una serie di elementi negativi, di problematiche, di disagi sociali e culturali in qualcosa di artistico: rime, poesia, metafore figure retoriche».
Il rap – quello vero, quello delle origini – prende dei ragazzi che non hanno niente e offre loro la più grande delle possibilità: far sentire la propria voce. «Vogliamo essere degli amplificatori», commenta Kiave, «delle piccole casse per chi altrimenti avrebbe problemi a farsi sentire, ad andare in uno studio, a recuperare le strumentali o anche solo a orientarsi nel marasma che si trova sul web. È questo il nostro ruolo, oltre a dare una piccola direzione».

Un album ricco di emozioni
Samuele “DaSamu”, Guido “Dogui”, Mirko “Gero”, Rita “Ciry”, Yasmin “WayZ”, Davide “OnAir63”, Azhar “Belek”, Matteo “inphinite”: i ragazzi e le ragazze che, quest’anno, hanno partecipato al laboratorio, provengono da contesti molto diversi ma accomunati dalla voglia di raccontare e di raccontarsi. «Il rap è un mezzo per parlare», dice Rita – in arte Ciry. Tra poco compirà 18 anni ed è la prima volta che si approccia seriamente all’hip hop. «Questo album, a differenza di altri, aveva qualcosa da dire».
Pur nelle loro diversità – si tratta di un lavoro eterogeneo e composito e proprio in questo sta la sua forza – gli adolescenti del gruppo hanno raccontato la loro visione del mondo, della città e del quartiere che abitano. «Secondo me quello che viene fuori da questo disco è un’insoddisfazione verso il mondo degli adulti», commenta Filice, «come se non ci fosse più dialogo, come se mancassero luoghi di ascolto e di confronto. Però esce anche tanta voglia di impegnarsi, di non accettare che le cose stiano così e basta».
«Io scrivo,/ Per la merda che vedo in giro/Per la gente che vale/E quindi viene presa in giro/Per la gente che sta sola/Lascio un messaggio vivo, /Non mollare, perché sola ci stavo anch’io». Sono le rime che ha scritto Ciry per il brano Scelte. Ogni strofa delle sette canzoni dell’album porta con sé un enorme carico di emozioni – tutt’altro rispetto alla generazione apatica senza nulla da dire che spesso viene dipinta – sia negative sia positive. «Lo scopo quando scriviamo è questo», spiega Davide, in arte Onair63. Ha 15 anni – quasi 16, specifica – e prima faceva freestyle. Grazie al progetto ha scoperto la bellezza di prendersi del tempo per pensare e trovare le rime migliori, aiutato dal gruppo. «Le frasi che non ci si aspetta creano delle emozioni in chi ascolta. Non sempre sono emozioni considerate positive, ma è giusto così».
E nei ragazzi, cosa suscita mettere nero su bianco quello che provano rispetto al mondo che hanno attorno? «La scrittura è un momento intimo», racconta Davide, «che può offrire un’occasione di sfogo, ma anche di soddisfazione. Non lo fai solo per dire “sono arrabbiato”. Lo fai e sei contento, quindi è un livello successivo». Largo spazio nel disco ha il quartiere che i ragazzi vivono, Corvetto. «È una zona che vive un po’ nel degrado, proprio a livello strutturale e sociale, se cammini per strada vedi sporcizia e disordine», dice Rita. «Però c’è anche tanta speranza, c’è tanta gente, c’è il luogo in cui noi ci incontriamo, c’è anche la scuola, c’è la voglia di migliorare le cose».

Elaborare la morte di Ramy
Proprio le vie di questo quartiere sono state teatro dell’inseguimento dei carabinieri che, lo scorso 24 novembre, si è concluso con un incidente e la morte del diciannovenne Ramy Elgaml. Un evento che ha avuto un’eco molto forte nel quartiere e che ha richiesto un’elaborazione collettiva.
«Questo fatto mi ha suscitato tante emozioni e di primo impatto mi ha portato a diffidare dello Stato», confida Onair63. «Quando ci siamo incontrati per il laboratorio ne abbiamo parlato per tutte e due le ore. Abbiamo ascoltato il brano Un mestiere qualunque di Cor Veleno, che parla della storia di un poliziotto. Ci ha fornito due punti di vista interessanti. In me si è formato un dilemma morale che non aveva una risposta. Alla fine penso che la società di oggi sia così: non c’è una sola risposta».
Dopo la morte di Ramy in me si è formato un dilemma morale che non aveva una risposta. Alla fine penso che la società di oggi sia così: non c’è una sola risposta
Onair63, 15 anni
Che i ragazzi siano riusciti ad andare oltre degli schemi fissi di pensiero non è scontato. «Il rap porta spesso con sé un odio incondizionato per le forze dell’ordine, anche quando ho iniziato ed ero più piccolo di loro», ragiona Kiave. «Poi in età adulta ti poni delle domande, ti chiedi “Ma perché quest’odio incondizionato? Dov’è radicato?”. Tra i partecipanti al laboratorio c’era anche un ragazzo che era legato a Ramy, che ci ha dato il suo punto di vista, che trascendeva qualsiasi opinione giornalistica che abbiamo visto in televisione o sul giornale, aveva molte più informazioni. L’abbiamo ringraziato, perché si è aperto tantissimo e non era scontato. Ognuno ha detto la sua, è stato un bel tavolo di discussione; io ho imparato tantissimo da loro quel giorno. Quando poi sono arrivati i video dell’inseguimento ne abbiamo parlato di nuovo. Nell’album ora c’è il brano Posto di blocco, che parla proprio di questo: è stata una loro scelta, anzi, sono arrivati al laboratorio con il brano già pronto».
Il rap come terreno di dialogo
Succedeva spesso durante il percorso – e succede tutt’ora – che i ragazzi si confrontassero tra loro, si dessero consigli e costruissero assieme i brani. «Ci sentiamo, scriviamo dei pezzi assieme», dice Davide. «Ci diamo un botto di spunti, che magari ci fanno cambiare anche il modo di pensare. C’è competizione sana: magari un altro scrive una rima bellissima e tu vuoi farne una ancora più bella».
Questo disco che è molto più di un insieme di brani. È impegno collettivo, è esercizio di ascolto. Perché, come Ciry ha scritto nei suoi versi, nella canzone che dà il titolo all’album, La voce dei ragazzi/ Io l’ho sempre chiamata/Rap.

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