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Stefano Piziali

Alla cooperazione internazionale serve un’intelligenza artificiale

di Anna Spena

Stefano Piziali, nuovo direttore di fondazione Cesvi, ha un'idea chiara sulla cooperazione internazionale: «Non deve avere paura del cambiamento e deve utilizzare l'intelligenza artificiale come strumento di lavoro, non dobbiamo guardarla con diffidenza». E ancora: «Dobbiamo lavorare su un piano di completa parità con tutti gli stakeholder locali e sviluppare i progetti di emergenza pensando fin da subito a piantare i semi dei programmi di sviluppo»

Torniamo al 1993. Stefano Piziali, bergamasco, iniziava il suo cammino nella cooperazione nazionale con fondazione Cesvi, di cui è socio-fondatore. Piziali si è occupato di emergenza e sicurezza, e ha lavorato sui programmi umanitari e di riabilitazione in diverse crisi dagli anni Novanta fino ai primi anni Duemila, nei Balcani, in Africa e in Asia.

Nei 20 anni con Cesvi ha contribuito alla crescita del ruolo dell’organizzazione all’interno network europeo Alliance2015, ha sviluppato un innovativo sistema di policy e avviato le attività di advocacy nazionali e internazionali, dando vita all’area advocacy policy e partnership, di cui è stato a lungo anche security advisor. Nel 2013 ha iniziato un nuovo percorso decennale come capo dipartimento advocacy e programmi in Italia ed Europa dell’organizzazione umanitaria WeWorld, contribuendo nel 2018 alla fusione tra WeWorld e Gvc, operazione che ha dato vita ad una delle principali ong italiane. A novembre è tornato in fondazione Cesvi, con la carica di direttore.

In Stefano Piziali la cooperazione  internazionale diventa un fatto molto concreto, non “calata dall’alto”, dove i progetti nascono, si costruiscono e si modellano, attraverso la collaborazione con le realtà che vivono i territori. Sull’incarico in fondazione Cesvi dice: «Più che un ritorno, questo è un nuovo inizio». Negli ultimi 20 anni il mondo della cooperazione internazionale si è trasformato, e una cooperazione intelligente e utile si basa su questo: sapersi trasformare, non rimanere fermi. 

Ha detto: “Non un ritorno, ma un nuovo inizio”. Perché?

Dieci anni fa ho lasciato fondazione Cesvi per entrare in WeWorld come capo dipartimento advocacy e programmi in Italia ed Europa . È stata un’esperienza professionale molto interessante e stimolante, che mi ha consentito di contribuire alla fusione tra WeWorld e Gvc. Un’iniziativa che ha portato le due organizzazioni a più che raddoppiare, in quattro anni, il volume dei progetti in Italia e nel mondo. Credo che questo sia il momento per il mio nuovo inizio in fondazione Cesvi perché posso portare un’esperienza arricchita da quello che ho fatto negli ultimi dieci anni, dove mi sono occupato principalmente di relazioni con gli stakeholder, di programmi in Italia e di sviluppo di relazioni anche a livello europeo. Cesvi oggi è diversa dalla fondazione che ho lasciato dieci anni fa. E credo davvero di poter dare quel contributo di cui l’organizzazione ha bisogno. La realtà si è consolidata dal punto di vista patrimoniale, ha superato una fase di riorganizzazione interna e adesso è pronta a fare un salto per essere riconosciuta non solo come una ong che rappresenta chiaramente le sue origini bergamasche, lombarde, ma può rappresentare nel mondo la cooperazione italiana e collaborare con i soggetti più innovativi, a livello sia nazionale che internazionale.

Com’è cambiato il settore della cooperazione internazionale negli ultimi 20 anni? E quanto è importante oggi, anche per le ong, lavorare su due piani: quello nazionale e quello internazionale?

Il primo punto riguarda sicuramente il superamento di una visione neocolonialista della cooperazione e il superamento di una visione terzomondista. Questo certamente ha comportato, e ancora comporta, un approccio totalmente diverso alla cooperazione, sia quando parliamo di progetti di emergenza che quando parliamo di progetti di sviluppo. Bisogna costruire relazioni durature, e queste relazioni bisogna sostenerle e stimolarle, con le realtà in loco. Bisogna ribaltare la prospettiva classica di “quelli che lavorano nell’ultimo miglio”. Bisogna ribaltare la prospettiva del “Nord del mondo che guarda al Sud del mondo”. Il Sud del mondo è il primo miglio, dal Sud del mondo attingiamo conoscenze che ci permettono di lavorare a livello globale. Abbiamo bisogno di una nuova logica: “Noi siamo già là”. Dal Pakistan alla Palestina, dall’Ucraina all’Uganda, dalla Colombia al Perù fino alla Libia, solo per citare alcuni Paesi in cui Cesvi è presente.

Viviamo la famosa terza guerra mondiale a pezzi e il ruolo della cooperazione è decisivo

E “stare la” significa lavorare alla pari con i soggetti che ci sono in quei territori, senza imporre la nostra visione o farci imporre la loro maniera. Si deve entrare in un piano di completa parità altrimenti rimaniamo nella logica sbagliata che o siamo noi a dover insegnare qualcosa a loro, o siccome noi siamo ex colonialisti e quindi abbiamo sbagliato, dobbiamo fare le cose e i progetti solo in base alle loro indicazioni. Anche il concetto della famosa “localizzazione” è un concetto politicamente sbagliato. Il concetto del pensare globalmente e agire localmente non tiene più. Bisogna anche iniziare a pensare localmente, perché il pensiero è lì. Nel primo miglio della cooperazione, dove incontri le comunità locali, le leggi locali, le autorità locali, dove incontri gli altri attori della cooperazione, le altre ong, dove adesso incontri anche i donatori.


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Fondazione Cesvi lavora in Palestina così come in Ucraina. Parliamo tanto di guerra in questi mesi, ma i due citati sono solo due dei grandi conflitti attivi oggi. Sono tantissime le guerre dimenticate. Qual è il ruolo della cooperazione in questi conflitti?

Viviamo la famosa terza guerra mondiale a pezzi e il ruolo della cooperazione è decisivo. Fino a poco tempo fa si pensava che la cooperazione in emergenza fosse, per esempio, staccata dalla cooperazione di sviluppo o dalla cooperazione degli Stati o dalla società civile. Oggi invece sappiamo che c’è un nesso umanitario fortissimo tra sviluppo e pace, affinché questo nesso tenga bisogna interfacciarsi con tutte le parti: dai governi alla società civile di quel Paese. È assolutamente illusorio pensare di intervenire con un programma umanitario non considerando che poi a quel programma dovrà seguire un programma di sviluppo, sia che si tratti di una guerra o di una calamità naturale. Quindi come ong bisogna operare in quel contesto portando il nostro contributo di attore umanitario, basato appunto su principi umanitari, ma senza dimenticare che lì poi dovrà nascere un nuovo modello di sviluppo che contempli governance e attori locali. Il compromesso, nella cooperazione, è importante. 

Oggi sappiamo che c’è un nesso umanitario fortissimo tra sviluppo e pace

In che senso?

In tutti i contesti in cui operiamo ci sono dei conflitti. Dobbiamo affrontare le emergenze principali e mettere i semi per programmi di sviluppo. Per fare questo è necessario discutere del superamento dei conflitti e pensare a percorsi di riconciliazione per sanare i diritti che non sono stati tutelati. Dobbiamo pensare a percorsi di giustizia, perché i conflitti si superano anche facendo giustizia. Per quello che sta accadendo oggi in Medio Oriente, senza entrare nelle polemiche che stanno animando un po’ la stampa di tutto il mondo, comunque si concluda questo conflitto, alla fine deve esserci un percorso di giustizia nei confronti delle vittime, di qualsiasi parte esse siano, altrimenti ci stiamo prendendo in giro. Il vero problema della crisi palestinese è che non c’è mai stata la forza sufficiente a livello internazionale per imporre un percorso di giustizia. Ecco la cooperazione deve essere attore dei percorsi di giustizia.

La cooperazione deve essere attore dei percorsi di giustizia

Come immagina il futuro di fondazione Cesvi da qui ai prossimi dieci anni?

Dobbiamo rafforzare ancora di più i legami con gli stakeholder internazionali. Nei prossimi dieci anni dovremmo essere stati in grado di superare brillantemente la fase della digitalizzazione che sta investendo sempre di più anche il mondo del non profit, anche se viene vista ancora come un problema. Ma sono convinto che l’intelligenza artificiale potrebbe essere una grandissima opportunità per completare le analisi che precedono la stesura del progetto, o anche scrivere i progetti grazie al sostegno dell’Ia. Ma sia chiaro: l’intelligenza artificiale non è la negazione dell’elemento umano, ma è un valore aggiunto. Noi come Cesvi non abbiamo paura di inserirla nei nostri sistemi, nei nostri processi. Ovviamente è un percorso complicato perché mancano ancora le competenze, ma dobbiamo necessariamente imparare per non restare indietro, e per farlo, anche in questo caso, dobbiamo fare network. 

Credit foto Giovanni Diffidenti


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