Barriera di Milano a Torino il venerdì mattina è un quartiere tranquillo. Qualche monopattino, tanti cani al guinzaglio, due anziani che si sorreggono a vicenda prima di attraversare la strada. Sembra che tutto e niente possa succedere. E invece qui qualcosa è accaduto, qualcosa di molto grave. Un ragazzo di 19 anni è stato ucciso in via Monte Rosa. Sull’episodio, ci sono parole che si rincorrono – rissa, aggressione, agguato -, ma saranno le indagini a ricostruire cosa sia accaduto nella notte tra il 2 e il 3 maggio. Restano lo sgomento, il dolore di una comunità e l’onda lunga dei cortei (tre in dieci giorni, tra preghiera, protesta e mobilitazione).
Con VITA sono stata qui pochi mesi fa. Era febbraio: l’avevo definito un quartiere accogliente, per la sua alta densità abitativa e il background migratorio, prima dal Sud Italia e poi dal mondo. Avevo scritto di protagonismo civico e di una forte progettazione per il territorio. Mi sono chiesta che cosa non avessi visto. Di cosa non mi sono accorta? E così sono tornata.
Il quartiere dei più
Bagni pubblici di via Agliè, casa di quartiere, a cento metri in linea d’aria da via Monte Rosa, la stessa che ho visto fotografata su tutti i giornali. Fino a qualche giorno fa un mazzo di fiori campeggiava in una buca delle lettere, oggi non c’è più niente.
Questo spazio ha una storia: negli anni 50 aveva la funzione contenuta nel nome, un posto per lavare e lavarsi. È stato chiuso a lungo. Poi, dal 2008 è divenuto presidio di cittadinanza attiva, senza perdere la vocazione originaria. La direttrice è Erika Mattarella, un uragano di idee e soluzioni, difficile da raggiungere al telefono tanto quanto è presente dal vivo. Tutti le chiedono: come stai? Lei risponde a ognuno, e aggiunge “E tu?”. «Mai dimenticarselo», dice. Il suo ufficio ha le porte aperte, entra ed esce chiunque, sta cercando una soluzione per un signore anziano in difficoltà. A un certo punto la trova, mi invita a salire in auto e mi porta a conoscere quello che chiama «il quartiere più bello di Torino».

Origine siciliana, nata e cresciuta in Barriera di Milano. La persona perfetta per fare questo tour, le dico. «Vedrai, è bellissimo», risponde. «Per me è sempre stato il quartiere dei più, positivi e negativi». In che senso? «Innanzitutto, è il quartiere a più alta densità abitativa di Torino: c’è tanta gente sempre, ovunque, a tutte le ore. Meno di tre chilometri quadrati per 38mila persone. Dal mio punto di vista, è una cosa piacevole, perché non è quartiere dormitorio, di quelli in cui vedi la gente soltanto dopo le 18, e non è un borgo di uffici, tante persone di giorno e nessuno di sera. Qui anche il sabato o la domenica c’è vita. È uno dei motivi per cui ha ancora moltissimo commercio di prossimità». Fuori dal finestrino, scorrono le vetrine: il panettiere, la ferramenta, tantissimi negozi di alimentari, i profumi di una popolazione multietnica. «Molti stanno aperti fino alle 22, soprattutto i barbieri e le macellerie. Questo è l’unico quartiere che ha ancora due mercati attivi tutti i giorni, dal lunedì al sabato (stiamo superando quello di piazza Foroni, c’è una bella folla colorata, nda) e uno due volte a settimana in piazza Crispi, l’ultimo pomeridiano della città».

«È il quartiere con più immigrati e con più giovani», aggiunge indicando il panificio pugliese, «buonissimo. Fanno arrivare la farina da Altamura». Superiamo un palazzo con un grande murales: «Ne vedrai tantissimi, sono in tutto tredici. L’artista Millo ha trasformato tredici facciate cieche in opere d’arte pubblica». Superiamo una piazza, proprio di fronte alla sede degli Alpini, entriamo in quella che Mattarella chiama «la zona verde. Barriera è il quartiere che ha più cemento in assoluto, ma in questa zona, dove un tempo c’erano soltanto cascine, negli anni ’80 è stato fatto un buon lavoro tra il pubblico e l’edilizia convenzionata. Guarda che bellezza!». Arriviamo a Il Boschetto, l’associazione che gestisce un terreno deputato agli orti urbani: «Qui c’è una vera comunità, allegra, eccezionale. Ogni sabato sera si accende il forno e chi vuole viene a cuocere il pane». Appoggiate alla ringhiera, ci sono una serie di cassette con dentro la terra.«È un progetto che stiamo portando avanti con la scuola: ogni bambino si prenderà cura di una piantina che poi resterà al quartiere».
Una periferia relativa
La chiamano periferia, ma è relativa: in dieci minuti di tram si raggiunge il centro. Che cosa si intende allora? «Il degrado, e l’essere molto popolare, aiuta ad associare la parola periferia a un luogo, nonostante questo quartiere si chiami così perché era la porta di ingresso della città, dove un tempo si pagava il dazio per poter entrare». Mi mostra le case “moderne”: «I miei genitori le chiamavano così perché avevano l’ascensore. È ancora la zona più bella, a pochi metri da dentro le abitazioni in cui il bagno interno non c’è».

È appena passato in bicicletta il falegname di quartiere, ha ereditato il mestiere dal padre. Lo salutiamo e superiamo la scuola: c’è un bel cortile, tanti alberi, Mattarella parla di una didattica all’avanguardia. Mi chiedo come una comunità così stretta, quasi un piccolo paese, abbia reagito a quello che è accaduto a inizio maggio. «È stata una cosa tremenda. La casa e il comitato di quartiere hanno partecipato alla veglia di preghiera nei giorni immediatamente successivi (sono seguite una manifestazione di Fratelli d’Italia con lo slogan “Barriera rinascerà” e un presidio di Cgil Torino con il circolo Risorgimento, il circolo A. Banfo, il Pd, Sinistra ecologista, Libera e Acmos, nda). Ho percepito tanto dolore».
Una vita bella
Per la gente della zona è stato uno choc. «Un po’ di ragazzi, anche di seconda generazione, si chiedono: ma io devo avere paura ad andare per strada?». Siamo arrivate in via Monte Rosa, c’è una moschea, «persone disponibili, come tutto il quartiere del resto. Se le coinvolgi, ci sono». Di fronte al luogo dove è avvenuto l’accoltellamento le chiedo se dobbiamo aggiungere dei più a questo quartiere: «Più povertà, più disoccupazione, ma anche più solidarietà. Un esempio è la parrocchia del Sermig: guarda quelle fotografie appese ai muri, sono intatte. Nessuno le toccherà, il doposcuola qui accoglie cento bambini al giorno».

È la paura che sta aumentando? Attraversiamo piano “le vie dello spaccio”, ne hanno scritto tutti i principali quotidiani… «Forse dobbiamo interrogarci su come affrontiamo la questione. Nessuno parla di dipendenza, del tormento delle famiglie, del disagio. Dalla pandemia in poi, in questa zona è attivo il cantiere Abc, un laboratorio permanente che coinvolge le associazioni dei quartieri Aurora e Barriera. Ci siamo detti: facciamo attenzione a quanto si urla e in che direzione si urla, perché possiamo anche pensare di dire basta, andate via di qua, ma in questo modo la droga non sparisce, non spariscono i consumatori e non sparisce chi la vende. Dobbiamo elaborare la questione in maniera collettiva».

Per Mattarella, «non bisogna negare né puntare il dito. Quando accade un episodio come questo, smettiamo di giudicare, chiudere, mettere catene e negare. Interroghiamoci invece su come non farlo più succedere». Ci sono i trapper a Barriera di Milano, da poco è nato anche un collettivo, Original Artisti, composto da un gruppo di giovani e giovanissimi: «Uno di loro mi ha fatto notare una cosa che penso sia molto vera. Barriera di Milano deve smettere di farsi raccontare dagli altri e iniziare a raccontarsi da sola».
Il nostro giro è finito. Nell’atrio dei Bagni pubblici, è allestita una mostra fotografica dedicata a chi lotta, Oltre il silenzio. Un’immagine mi colpisce: due ragazzi guardano l’obiettivo, e dietro di loro su uno striscione c’è scritto «Vogliamo una vita bella».
La fotografia in apertura è di Catalina Salgau, ritrae un murales che oggi non c’è più. Le altre immagini sono state scattate dall’autrice dell’articolo
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